sabato 15 dicembre 2012

Bianciardi dove sei?


A novant’anni dalla nascita

Marco Bucciantini

 "l’Unità", 14 dicembre 2012

LUCIANO BIANCIARDI AVEVA IL FEGATO AMARO E AVVELENATO, NON CI SAREBBE ARRIVATO A NOVANT’ANNI: SAREBBERO STATI OGGI. S’è fermato un bel pezzo di strada prima, gli mancava un mese a 49 anni, il 14 novembre del 1971. La bomba che voleva piazzare sotto il Torracchione, per vendicare i minatori di Ribolla, morti per il grisù disse il processo, crepati come sorci per calcolo e interesse del padrone, scrive invece la storia, quella bomba lì gli era rimasta addosso. E la miccia bruciava lenta, incendiata dalla sua vita impossibile, «agra», riassunse lui in un libro che diventò un bel film di Lizzani, e un titolo che adesso è una frase fatta, La vita agra, appunto.
Il Bianciardi, un maremmano. Spesso capita di rimpiangere uno sguardo perduto, un punto di vista genuino e diverso sulla realtà. Quante volte si è letto (si è detto): «Ah, se ci fosse ancora Pasolini». O De André: ognuno può completare la sua lista. Forse qualcosa di loro è rintracciabile, sono autori (anche idoli) che hanno lasciato qualcosa dentro qualcuno. Sono occhi con cui è capitato di «vedere». Con Bianciardi no: non ci sono eredi, né imitatori, neanche sbiaditi. «Sopportatemi, duro ancora poco», disse a chi gli stava vicino, nei giorni che correvano verso la morte. Durò poco.
La miniera esplose il 4 maggio del 1954. Morirono 43 operai, Luciano li conosceva tutti. Andava a sedersi fuori, li aspettava, ci parlava, portava libri da leggere perché si era inventato era direttore della biblioteca Chelliana di Grosseto un bus sgangherato per portare da leggere in campagna, e sollecitava il suo assistente Aladino: «Mi raccomando, andiamo a occhio». Significava: ricordiamoci a chi prestiamo i libri, perché compilare schede e fogli rientrava in un senso pratico sconosciuto al Bianciardi. In questo modo sapeva di perdere molti testi, ma ai rimproveri dell’amministrazione rispondeva alla Bianciardi: «Meglio un libro rubato che un libro mai letto». I minatori, allora: «I miei amici», diceva. Denunciava la loro condizione di povertà e di pericolo. Alcuni di loro gli raccontarono della galleria in cui stavano scavando a fondo cieco, «lo scriva sui giornali: corriamo il rischio di saltare tutti per aria». Questo accadde.
E Bianciardi va via, va a Milano, va a morire: ci metterà diciassette anni. Traduce (Miller, Faulkner, tanti altri). Scrive, studia. S’incazza. Dissente. Beve, ma non si corrompe. Trova il successo, cercandolo e odiandolo, perfino combattendolo, rifiuta l’offerta di Montanelli di accasarsi al Corriere, si fa licenziare dalla Feltrinelli, «perché strascicavo i piedi, e mi muovevo piano, mentre altri erano fannulloni frenetici che riuscivano, non si sa come, a dare l’impressione di star lavorando. Pensa, si prendono pure l’esaurimento nervoso», ricordò un giorno alla figlia Luciana, che ne custodisce la memoria. Ma la notorietà arriva comunque, con quel libro, La vita agra, con l’intellettuale di provincia che va in città per far esplodere il Torracchione, la sede della Montecatini, i padroni della miniera. Cercate questo libro fra gli scaffali, o in libreria, leggetelo, e anche il Lavoro culturale: solo gli autori così dis-integrati, gli intellettuali così puri possono essere (alla lunga, ci vuole tempo) così profetici. Dentro quell’io narrante spudorato che è lui certamente, ma è anche l’indefesso lavoratore dell’immateriale, al servizio di un sistema imbattibile, c’è l’autobiografia di un qualunque trentenne di oggi, costretto alla perdita dell’innocenza senza avere niente in cambio, nemmeno la paga. È doloroso, Luciano: cerca compagni per la rivoluzione, incontra persone che faticano a combinare il pranzo con la cena, indaffarate a sopravvivere come formiche. Si addormenta, alla fine, annichilito, dopo aver attraversato tutti i simboli del vivere comune, dalla famiglia al sesso, dal lavoro ai soldi, senza trovarne il senso. Si rifugia nel bastione che la vita non ha potuto distruggere: l’unica rivoluzione possibile è dentro, in interiore homine. Ma non basta a curare l’esistenza.
Prima di tutti tratteggiò il carrierismo politico, «arte della conquista e della conservazione del potere». E pronosticò l’inevitabile cannibalismo consumista, nei «bisogni indotti dalla pubblicità, con i padroni che decidono per noi cosa dobbiamo desiderare». Questo è il Bianciardi che anticipa e che resta. Ma servirebbe quello scomparso, quello introvabile, crudo e nudo, che odora di pastrano sdrucito, di polvere e di carbone. Chi lo ha letto, lo sa, lo sa. Lui che cammina per ballatoi e ciottolati, e spiega perché, come mai, che lima la lingua e va avanti con il suo stile preciso, nuovo, fantasioso, davvero anarchico, dolce e cinico, un cazzotto e un sorriso, un sogno e un’analisi, un lessico allacciato alla manualità, un frasario che deve qualcosa a Gadda. Il Bianciardi che consiglia ai bambini di leggere Diabolik, «dove il bene in qualche modo vince sul male, dove la donna è forte», invece del libro Cuore, «dove ti affezioni a personaggi che poi muoiono in guerra, straziati, e i bambini poveri restano somari a vita, e quelli ricchi sono i più bravi della classe». Straordinario.
Soffiava vetriolo, ne aveva tanto in corpo da rovinarsi. Dopo La vita agra gli dissero: insisti con il tema dell’incazzato, funziona e fai soldi. E lui scrisse un romanzo del Risorgimento: adorava la storia e Garibaldi, il suo coraggio e la sua energia democratica. Era un ribelle che camminando finiva sempre sulla strada sbagliata, fuori campo, a concimare la sua penosa libertà. Da lì ci vedeva meglio. La fedeltà a se stesso fu spietata: questo manca negli intellettuali che oggi scelgono sempre una parte dove stare, un guadagno da proteggere. Che confondono e truccano l’anticonformismo per il conflitto. Bianciardi non aveva questo senso di colpa (l’unico: aver lasciato la Maremma). Non aveva bisogno di negare l’adorazione per le gambe della Carrà, o l’interesse per il calcio: gli ultimi due anni curò la rubrica delle lettere per il Guerin Sportivo di Gianni Brera, quegli interventi sono diventati un libro di massime, Il fuorigioco mi sta antipatico.
Era un disturbo, era un’agenda con le date a caso, un trapezista che preferiva cadere, perché non c’è verità nell’equilibrio, nell’ordine. Da vivo, era perfetto per essere morto, per essere poi riscoperto, per essere rimpianto: tutte quelle declinazioni dell’affetto che avrebbero chiesto ai suoi contemporanei il tempo, la tolleranza, l’intelligenza, la curiosità. È un pensiero che fa rabbia, il Bianciardi. È un conto aperto.
Un giorno era seduto sulla scalinata della scuola elementare di Grosseto, in attesa che dall’edificio dirimpetto, che ospitava il liceo classico dove aveva studiato e insegnato, uscisse la figlia. Il bidello napoletano lo riconobbe e lo chiamò, «professore, venite a sedervi di sopra, sui gradini ci sono le cacche di piccione». Lui rispose: «Vedi Quirino, nella vita bisogna scegliere su quali merde mettersi a sedere, io ho scelto questa».

PER APPROFONDIRE:
La vita agra di Luciano Bianciardi
Milano, location da miracolo economico

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