domenica 4 novembre 2012

Macché romanzo, meglio la realtà


Immaginazione? Invenzione? Fantasia? 
Erano gli ingredienti delle grandi opere letterarie. 

Oggi invece gli autori più in voga optano per biografie e fatti di cronaca.
 Ecco chi, dove e perché

di Angiola Codacci-Pisanelli
hanno collaborato Antonella Fiori e Michele De Mieri

"L’Espresso",  novembre 2012

Se ha ceduto anche Salman Rushdie, vuol dire che non c’è più storia: tra gli scrittori più interessanti ormai l’immaginazione ha poco credito. Lo spostamento da fantasia a realtà, da “fiction” a “facts”, è nell’aria da tempo. Ma quando, in contemporanea in tutto il mondo, con un lancio orchestrato da Andrew Wiley, il più potente agente letterario del globo terrestre, è uscito “Joseph Anton” (Mondadori), romanzo autobiografico in cui Rushdie racconta gli anni passati nel terrore dopo la fatwa per “I versetti satanici”, l’immaginazione ha subito il colpo decisivo. Se cede al fascino dell’autobiografia anche chi ha inventato trame e personaggi indimenticabili come quelli dei “Figli della mezzanotte” o dell’“Ultimo sospiro del Moro”, significa che ormai è assodato: per gli scrittori e per i lettori del Duemila una storia vera è sempre più interessante di una inventata.
Realtà batte immaginazione? Non è così semplice. I libri più interessanti non sono nudi fatti di cronaca raccontati da scrittori in sospetta crisi di ispirazione. Sono invece romanzi che prendono spunto da storie vere ma le trasformano in opere letterarie: libri in cui la realtà diventa “d’autore”. La guerra civile in Siria non è più la stessa se a raccontarla è Jonathan Littel (“Taccuino siriano”, Einaudi) che al suo esordio aveva stupito critici e lettori con “Le benevole”, viaggio immaginario nella mente di un aguzzino nazista. Ed Eduard Limonov, scrittore, dissidente e icona pop-camp di trent’anni di storia russa, «un tipo sexy, smaliziato e spiritoso che sembrava al contempo un marinaio in libera uscita e una rockstar», è più vero del vero nel libro che gli ha dedicato Emmanuel Carrère (“Limonov”, Adelphi).
È un fenomeno che non conosce confini né barriere di lingua, di spazio o di tempo. E che non riguarda solo i libri. Dalla visionarietà di “Essere John Malkovich” ai continui rimandi tra vita e teatro di “Cesare deve morire”, al cinema fiction e realtà si mescolano sempre più spesso, mentre nelle gallerie d’arte, dal letto sfatto di Tracey Amin esibito in una galleria, l’autobiografia è un ingrediente immancabile di opere e performance. I lettori apprezzano, i critici lodano e le giurie dei premi si fanno conquistare. Mentre il “Limonov” vince il Goncourt, fa scalpore che Hilary Mantel con “Bring up the bodies” ottenga il secondo Booker Prize dopo “Wolf Hall” (Fazi), e di nuovo con una ricostruzione storica così empatica da dare la freschezza dell’attualità del Cinquecento di Thomas Cromwell, l’uomo chiave della corte di Enrico VIII. Il “Congo” è protagonista di un romanzo incoronato come il migliore di lingua fiamminga grazie allo storico David Van Reybrouck, in un libro in via di traduzione in tutto il mondo. Segue lo “Zeitgeist” anche il nostro Strega, vinto l’anno scorso dal ritratto del distretto tessile di Prato firmato da Edoardo Nesi (“Storia della mia gente”, Bompiani) e quest’anno sfuggito per un soffio al Pasolini raccontato da Emanuele Trevi (“Qualcosa di scritto”, Ponte alle Grazie).
Del resto gli scrittori italiani si sono convertiti da anni alla realtà: “Il demone a Beslan” di Andrea Tarabbia (Mondadori) è un affresco sulla strage del 2004 di una forza quasi intollerabile, mentre in “Elisabeth” (Einaudi) Paolo Sortino ha rielaborato le vicende della ragazza austriaca segregata dal padre per ventisei anni. A Sarah Spinazzola, per esordire con “Il mio regalo sei tu” (Marcos y Marcos), è bastato rielaborare l’amarissimo rapporto con il suo vero padre. E una delle collane più interessanti degli ultimi anni è “Contromano” della Laterza, dove giovani scrittori parlano di cose che conoscono per esperienza personale, i luoghi della loro vita. Tanto che Gaetano Cappelli è arrivato a mettere la propria foto in copertina del “Romanzo irresistibile della mia vita vera raccontata fin quasi negli ultimi e più straordinari successi” (Marsilio). Un libro che definisce così: «Una sorridente presa in giro per quei lettori che non fanno che chiederti a proposito di un romanzo: “ma è una storia vera?”, “è auto-biografico ? ”, strumentalmente assecondati dagli editori con fascette che assicurano i loro prodotti basati su fatti realmente accaduti o almeno ad essi “ispirati”».
“Niente romanzi, per favore” è il titolo di “Der Spiegel” per un’inchiesta accurata e accorata sul fatto che tutti i libri più interessanti della stagione «parlano della vita vera». C’è un po’ di preoccupazione, e lo si può capire: da Sterne a Proust, da Tolstoj a Mann, siamo stati abituati a pensare che il “grande romanziere” era quello che inventava grandi storie. Da Bauman abbiamo capito che il romanzo spiega la società meglio dei sociologi. Anche in Italia, anche nel Novecento, che sia Gadda o Morante, Vittorini o Pavese, Pasolini o Calvino, la regola aurea non è mai stata calpestata. L’autobiografia? Dio ce ne scampi. Le biografie? Anche le migliori andavano su uno scaffale a parte. La cronaca? Roba da giornalisti. Il vero scrittore andava oltre. Viaggiava al di sopra della realtà, inventando storie che raccontavano la vita meglio di quelle che succedevano davvero, e personaggi destinati a restare nella memoria dei lettori anche quando la storia avrebbe cancellato i pallidi burattini della cronaca. Oggi è vero il contrario. La fantasia è roba da generi minori: thriller e fantasy, noir e chick-lit. Alle storie inventate resta fedele una categoria grandissima ma lontana da ogni tentazione d’avanguardia: quella dei “grandi romanzieri americani”. Che sia Thomas Pynchon con “Vizio di forma” (Einaudi) o Don De Lillo con “Punto omega” (Einaudi) loro non cambiano idea: nei loro libri non c’è nulla che non sia farina del loro sacco. Ma persino Jonathan Franzen, tra “Le correzioni” e “Libertà”, ha infilato un memoir ispirato dalla morte della madre, “Zona disagio”, che a molti lettori è sembrato più riuscito dei due lodatissimi romanzi. Mentre Paul Auster, il più immaginifico degli autori d’Oltreoceano, ha voluto pubblicare “Winter Journal”, una specie di memoir. Joyce Carol Oates poi, che nella sua ricchissima produzione ha dimostrato di non aver problema a inventare, è maestra nell’arte di trasfigurare la storia pubblica (l’incidente di Edward Kennedy a Chappa-quiddick in “Acqua nera”, il Saggiatore) o privata (la morte di suo marito in “Storia di una vedova”, Bompiani).
Uno scrittore americano che è stato tra i primi a “ sdoganare” la realtà è Dave Eggers. Da “L’opera struggente di un formidabile genio” a “Zeitoun”, Eggers si è basato su materiale autobiografico e di cronaca fino a incorrere nei rischi che questo tipo di operazioni può comportare: una lite dolorosissima con la sorella che lo accusava di aver rielaborato nel folgorante romanzo d’esordio non solo le sue memorie ma anche il diario di lei, e la scelta dell’eroe sbagliato per il libro più recente, un siriano che si era comportato da eroe nei giorni dell’uragano Katrina, ma che è tornato agli onori della cronaca quando ha cercato di far uccidere la moglie. Non corre rischi del genere Aleksandar Hemon, trapiantato negli Usa da Sarajevo, autore di uno dei romanzi più lodati dell’anno scorso: “Il progetto Lazarus” (Einaudi) riprende una storia di inizio Novecento, quella di un anarchico ucciso dalla polizia americana. La vicenda si lega alla cronaca perché Hemon racconta il suo peregrinare per l’Europa dell’Est alla ricerca del “vero” Lazarus, con il corredo delle immagini scattate durante il viaggio da un fotografo, Yelibor Bozovic.
Rispetto ai romanzi storici, ai memoir, ai reportage, questi romanzi di “realtà d’autore” hanno una marcia diversa. La fine del regime di Ceausescu è lo sfondo su cui si staglia una magistrale descrizione della vita quotidiana nell’ultimo lebbrosario d’Europa ne “I figli di Hansen” (Zandonai) del giovane montenegrino Ognjen Spahic. In tutto il mondo si sprecano le lodi per “Qualcosa di più dell’amore” di Orlando Figes (in uscita da Neri Pozza), un “Dottor Zivago” che racconta però una storia d’amore vera, quella di due scienziati sovietici sopravvissuti ai gulag. E Nadia Fusini nella “Figlia del sole” (Mondadori) non si limita a scrivere una biografia, ma fa di Katherine Mansfield la protagonista di un romanzo.
Lo spiega bene Laurent Mauvignier, autore di “Storia di un oblio” (Feltrinelli): «Non ho indagato: ho creato. Non volevo scrivere una testimonianza su un fatto d’attualità, ma estrarne tutta la potenza per ricavarne una finzione ». In un testo formato da un’unica lunga frase, Mauvignier racconta la storia tragicamente vera dell’uomo che entra in un supermercato francese, prende una lattina di birra, la beve e subito si trova addosso quattro vigilantes che lo portano in un deposito e lo pestano a morte. Come aveva già fatto nel 2006 con “Dans la foule”, che narrava di vite intorno alla strage dell’Heysel, la cronaca serve a Mauvignier per accostarsi a un’esistenza, per dirne l’intimo e l’indicibile. Non sempre i diretti interessati apprezzano: Régis Jauffret, che in “Il banchiere” (Barbés) racconta di un finanziere ucciso da un’escori durante un gioco erotico, si è difeso così dalle accuse dei parenti: «In questo libro mi addentro in un crimine. Lo esamino, lo fotografo, lo filmo, lo registro, lo falsifico. Sono un romanziere, mento come un assassino».
La domanda di fondo però resta. Perché questa passione totalizzante per le storie “vere”? A volte le vicende che premono sono personali, un precursore del genere è Philippe Forest, che da “Tutti i bambini tranne uno” in poi ha avuto bisogno di scrivere cinque libri sulla morte della figlia prima di potersi dedicare ad altri argomenti. A volte a premere è la storia con la S maiuscola: Alidaf Soueif, romanziera egiziana passata in pochi anni dalla fantasia di “In the eye of the sun” alla militanza di “ Cairo: my city, our revolution”, in un articolo del “Guardian” teorizza la necessità di rinunciare alla fantasia quando si è circondati da una fase politica magmatica come quella che sta vivendo il suo Paese.
Ma perché proprio una storia e non un’altra? Chiede Limonov in una delle pagine dell’opera di Carrère: «Perché vuole scrivere un libro su di me?». Risponde Carrère: «Perché ha, o ha avuto, una vita appassionante. Una vita romanzesca, pericolosa, una vita che ha accettato il rischio di calarsi nella storia». Una storia che è stata messa alla prova dalla realtà ha sempre una marcia in più rispetto a una inventata. O almeno, così è in questo inizio di millennio. Agli scrittori non resta che accettare: persino il porno si sta adeguando. Al boom delle “50 sfumature” ha risposto il “Diario di una sottomessa” (Bompiani). Anche qui sesso, bondage e frustini, ma rispetto alla trilogia, l’autrice che si fa chiamare Sophie Morgan gioca una carta in più: tutto è dichiaratamente autobiografico.

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