giovedì 25 ottobre 2012

Una nuova traduzione di “Ulisse”


L’Odissea di Celati nel grande mare di Joyce

Mariarosa Mancuso, "Il Foglio", 20 ottobre 2012

Un classico che si cita, si usa per stupire e per vantarsi, più che leggerlo. 
Ma la smagliante versione che lo scrittore italiano sta preparando vale un altro tentativo. 
Non sarete soli, reietti o bizzarri se per caso “Ulisse” vi piace


Non è più un libro. E’ un’icona pop, al pari di certi quadri famosi per essere famosi: “Nighthawks” di Edward Hopper, “American Gothic” di Grant Wood, o le quattro versioni dell’“Urlo” di Edvard Munch (l’angoscia nell’era della riproducibilità redditizia). Per felice coincidenza, una copia dell’“Ulisse” di James Joyce sta tra le mani di un’assorta Marilyn Monroe, che seduta su una giostra parrebbe in dirittura d’arrivo, alle ultime pagine del monologo di Molly Bloom. O forse, come tanti di noi, è andata direttamente lì, a sbirciare le faccende piccantine.
Più che leggerlo, lo si nomina, lo si cita, lo si soppesa, lo si usa per stupire o per vantarsi. E’ la pietra di paragone del classico illeggibile, più del libro abbiamo in mente i ritratti o le caricature di James Joyce con occhiali e paglietta. E’ un campo di gioco per gli studiosi che smontano e rimontano il romanzo in tutti i modi possibili (anche in modi che possibili francamente non sembravano). E’ l’incubo che toglie il sonno agli scrittori irlandesi venuti dopo di lui (quel gran genio di Jonathan Swift invece non ha intimidito nessuno, i letterati son gente strana). E’ il gigante su cui si arrampicano i nani a caccia di visibilità. Ultimo della lista Paulo Coelho, il Frate Indovino venuto dal Brasile: quest’estate ha bollato Joyce come un danno per la letteratura, proponendosi come rimedio. Un minuto dopo il nostro vecchio “Ulisse” – Medusa mondadoriana verde e oro – era sul comodino. Il dispetto (anche verso il giornalista che ha raccolto la dichiarazione e l’ha diffusa senza dirgli “cretino”) accultura più dei buoni propositi.
Per un’altra felice coincidenza - serendipity, se avete letto “Zadig” di Voltaire o il saggio di Robert K. Merton – il Domenicale del Sole 24 Ore offriva come lettura per le vacanze il work in progress joyciano di Gianni Celati. Capitoli scelti di una nuova traduzione, necessaria perché le versioni si appannano – sono soggette al gusto del tempo, anche se al momento non ce ne accorgiamo – mentre gli originali conservano il loro splendore. Primo capitolo, con Buck Mulligan (ancora per pochissimo coinquilino di Stephen Dedalus, già ritratto da Joyce come “artista da giovane”) che si dedica al rito della barba scimmiottando la Santa Messa. “Accidenti, come parte veloce”, abbiamo pensato, ricordando i più faticosi approcci precedenti. La domenica successiva abbiamo scoperto l’inghippo: mancavano i puntini a segnalare i brani omessi. Non era solo merito del bravo traduttore (quanto a noi, impazienti eravamo e tali restiamo).

Tutto si può dire, tranne che “Ulisse” sia reader friendly. Per precisa intenzione di James Joyce, deciso a “far scervellare gli studiosi per i decenni a venire”. Fornì all’amico Carlo Linati e al critico Stuart Gilbert due tavole sinottiche che dovrebbero agevolare l’orientamento e confondono ancor di più le idee. Ogni capitolo ha il suo tema e il suo stile (alcuni canonici, altri inventati come la prosa “peristaltica”, perfetta per offrire il fianco ai nemici). Di più: ogni capitolo corrisponde a un colore e a un organo del corpo umano. Buttiamo via le mappe, più complicate del territorio da esplorare. Per non dire dello scherzetto “costruisco il romanzo in parallelo con l’‘Odissea’ di Omero, poi cancello le tracce”. 
Conviene andare senza il Baedeker, prendendo a esempio la signorina Lucy Honeychurch in “Camera con vista” di Edward Morgan Forster. Si ritrova a Firenze nella basilica di Santa Croce priva della preziosa guida, e subito pensa “ma come rassomiglia a un granaio, e come fa freddo”. Sa di poter provare “sentimenti appropriati” verso le opere d’arte, ma non riesce a decidere da sola quali siano le opere d’arte. Noi comunque sappiamo - volenti o nolenti – che “Ulisse” è un capolavoro del modernismo (se messi alle strette possiamo anche dire cos’è, il modernismo). Abbiamo sentito parlare del flusso di coscienza, che poi è come dire pensieri in libertà. Sappiamo, sempre volenti o nolenti, che tutto si svolge in una giornata - il 16 giugno 1904: quando James Joyce occhieggiò una bella rossa che passeggiava sulle rive del fiume Liffey (due giorni dopo lei prese l’iniziativa di baciarlo e di infilargli una mano nei pantaloni). Sappiamo che protagonista non è lo sbarbando Buck Mulligan e neppure Stephen Dedalus: è un certo Leopold Bloom che si arrabatta vendendo spazi pubblicitari, guarda le ragazzine, si tormenta per i tradimenti della moglie Molly (Stephen e Leopold si incontreranno verso la fine per una pisciata in compagnia). Sappiamo anche che Joyce, non pago, spingerà la sperimentazione fino a “Finnegans Wake”, irto di parole inventate e sprovvisto di qualsivoglia trama.
Basta e avanza per cercare di ricavare dall“Ulisse” qualche godimento (se ci riusciamo), abbandonando il libro al suo destino se proprio l’impresa risultasse ingrata. Dopotutto, si può vivere senza. E anche far bella figura in società. Per esempio, ribattendo a chi sostiene “sto rileggendo l’Ulisse’, pietra miliare e punto di non ritorno della letteratura novecentesca, e bla bla bla” che vi siete divertiti di più leggendo “Vita e opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo”, pubblicato a puntate dal reverendo Laurence Sterne tra il 1759 e il 1767 (anche “Ulisse” uscì a puntate, sulla rivista americana The Little Review dal 1918 al 1920, quando fu processato per oscenità).
Il reverendo Sterne era così sveglio che inventò il post modernismo quando il modernismo non era ancora stato inventato. E merita una medaglia per aver riprodotto il paradosso di Achille e la tartaruga in letteratura. A furia di digressioni, e per aver cominciato a raccontare la storia prima che l’eroe fosse concepito (i genitori di Tristram erano in procinto di farlo, quando la mamma interloquì con la sciocca domanda “caro, ti sei ricordato di caricare la pendola?”, ponendo una seria ipoteca sulla sanità mentale e fisica del piccino a venire), fa due conti e pensa che la narrazione non si metterà mai in pari con la vita dell’eroe.
Anche il monologo interiore non era una gran novità. L’aveva teorizzato e praticato il francese Edouard Dujardin (consideratelo un portatore d’acqua) nel racconto “I lauri senza fronde”. Joyce mette a frutto una tecnica non sua: ci sarebbero gli estremi per una causa, come le tante intentate contro la Apple. L’insistenza sul flusso di coscienza smaschera fantozzianamente quelli che l’“Ulisse” non l’hanno letto ma solo sentito riverire, o magari hanno goduto solo i pensieri proibiti di Molly. Nulla di male, i libri non li ordina il medico scrivendo in calce la posologia, prima la pillola poi le gocce, e del resto se uno scrive un romanzo scombinato deve aspettarsi che il lettore lo assaggi a piacer suo, saltando quel che non gli va. Carl Gustav Jung – che in questo caso somiglia alla sua parodia: magnifico esemplare di intellettuale affascinato da qualunque cosa, purché informe e priva di struttura – lo paragonava a un verme solitario, ne tagli un pezzetto e la tenia ricresce. Arrivato a pagina 135 (suvvia, poca roba, fin lì siam bravi tutti) racconta di aver cominciato per motivi suoi a leggere il romanzo a ritroso, e che andava benissimo anche così.
A nostro modestissimo gusto, esposto a bacchettate sulle dita, i capitoli più divertenti di “Ulisse” non son quelli dove Joyce gioca con la coscienza. “In diretta e senza censure, come mai prima, una giornata qualunque nella mente di un uomo come tanti”: questa potrebbe essere la fascetta per lanciarlo alla fiera di Francoforte in tempi di reality. Del resto, la presa diretta sulla realtà era una fissa dell’avanguardia novecentesca. Condivisa da Dziga Vertov che nel 1929 girò “L’uomo con la macchina da presa”, e da Walter Ruttmann che nel 1927 girò “Berlino – Sinfonia di una grande città”.
Il tedesco era l’unico regista, con Sergej Ejsenstejn, a cui Joyce avrebbe volentieri affidato la sua creatura letteraria per un adattamento. Che poi il flusso di coscienza – e di immagini, e di parole, e perfino di rumori da pub nel capitolo delle “Sirene”, quando Leopold Bloom schiaccia le patate nell’intingolo di fegato e qualcuno canta “M’apparì, tutt’amor, il mio sguardo l’incontrò” – fosse ottenuto a furia di artifici e bestiali fatiche, è il classico paradosso che svia gli imitatori dilettanti. L’aria “M’apparì” viene dall’opera “Martha” di Friedrich von Flotow, l’abbiamo ritrovata in un film di Peter Yates del 1979, titolo italiano “All American Boys” (l’originale era “Breaking Away”): la cantava un ragazzino ciclista di Bloomington innamorato dell’Italia, che voleva mangiare solo “zucchini” e usava come ciotola del gatto un posacenere con la scritta “Cinzano” (come il “M’apparì…” sia arrivato nell’Indiana, sarebbe materia per un esercizio letterario “unite i puntini e trovate i collegamenti”).
Joyce non solo al cinema ci andava, ma ne gestì uno a Dublino, nel 1909, assieme a un paio di soci. Non più disponibili Ejsenstejn e Ruttman, due registi hanno fatto la follia di adattare l’“Ulisse” al cinema. Nel 1967 l’irlandese Joseph Strick: bianco e nero, molte parole e molte parolacce, al punto che al Festival di Cannes facevano ogni tanto per decenza sparire i sottotitoli (Apple, nel 2010, rifiutò l’applicazione “Ulysses ‘Seen’” perché troppo scollacciata). Nel 2003 l’altro irlandese Sean Walsh, che ha scelto Stephen Rea come Leopold Bloom (francamente lo avevamo immaginato diverso). Titolo originale “Bloom”.
A nostro modestissimo gusto, esposto alle bacchettate sulle dita, i capitoli più divertenti di “Ulisse” son quelli dove Joyce gioca con i generi e le convenzioni letterarie. Il capitolo “Itaca”, dove la materia viene organizzata con le domande e le risposte del catechismo. Il capitolo “Eolo”, dove viene imitata rimpaginazione di un giornale (“E’ con sincero rammarico che annunciamo la scomparsa di un eminente cittadino dublinese”, segue trafiletto). Il capitolo “Circe”, organizzato come un copione teatrale, o forse come una sceneggiatura cinematografica, pare difficile rendere su un palco una scena come questa, poche righe su 200 pagine altrettanto fantasmagoriche: “Brucia l’oriente in un cielo di zaffiro, interrotto dai bronzei voli delle aquile. E sotto si stende la città delle donne, delle donne nude, bianche, inerti, fredde nella lussuria. Una fontana borbotta tra le rose di Damasco. Rose gigantesche mormorano di gigantesche uve”. Il capitolo “Nausicaa”, dove fa la parodia del romanzo per signorine: “Una bella camicetta blu elettrico, perché L’Illustrazione Femminileriteneva che il blu elettrico sarebbe venuto di moda”. Il capitolo “I buoi del sole”, dove Joyce imita gli stili della letteratura inglese da “Beowulf ’ ai giovani arrabbiati che allora non erano nati e neppure concepiti.
“Words,” a page from one of Joyce’s
notebooks for Ulysses
Magnifici tour de force, l’ultimo soprattutto, un tantino sproporzionati al contenuto: il nulla di fatto, o quasi, che accade nella passeggiata dublinese non viene ravvivato da particolari colpi di scena. Joyce esibisce i suoi muscoli da scrittore e dà fondo al dizionario della lingua inglese (noi che per le esibizioni spettacolari abbiamo un debole restiamo ammirati, anche se forte è la tentazione di urlare “Bravo, ma basta”). Un lessico di 30 mila parole – di cui almeno la metà usate una sola volta – per scriverne 265 mila. Non provate a rifarlo a casa. Più odiosi di certi nipotini di Joyce convinti che il romanzo sia irrimediabilmente superato (pure la ruota è vecchiotta, ma funziona ancora bene, basta non costruirne una con gli spigoli), sono certi nipotini di Joyce convinti che una manciata di parole difficili faccia la differenza tra loro e Coelho. Vale anche per chi invoca la responsabilità dello stile” contro gli “scribacchini mestieranti da classifica”.
Perfino le Cliff Notes – bignami con copertina giallonera degli studenti americani – arrancano dietro a Joyce (lo garantisce il ricchissimo sito themodernworld, tutto quello che avreste voluto sapere sul capolavoro e non avete mai osato chiedere). Se non volete dar retta a una classifica uscita sul Guardian, che piazza “Ulisse” in cima alla classifica dei “Cinquanta libri da non leggere prima di morire” (purtroppo ci mette anche “L’alchimista” di Coelho e “Mangia prega ama” di Elizabeth Gilbert, quindi il gioco non è più tanto divertente), troverete più utili due paginette intitolate “Cheat’s guide to Joyce’s Ulysses” sul sito della Bbc (questo vuol dire servizio pubblico). Pulite, eleganti, seguite da uno scambio di opinioni con i lettori invitati a partecipare, che non risparmiano battutacce. “Un uomo passeggia a Dublino. All’improvviso, non succede niente”. Oppure: “Perché vi lamentate che non c’è una trama? Se volete leggere un thriller, andate a comprarne uno”. “Non sarà uno scherzo architettato ai danni dell’establishment letterario inglese? James Joyce sta all’editoria come Tracey Emin sta all’arte”. Tracey Emin vinse nel 1999 un Tumer Prize con l’installazione “My Bed”: letto sfatto, lenzuola zozze, preservativi e altra robaccia (battuta azzeccatissima, considerate le volte che abbiamo dovuto leggere l’articolo “le perversioni di James & Nora”).
Si può vivere anche senza leggere “Ulisse” (chissà perché sempre indicato con l’articolo, come le ministre che giustamente obiettano). Si può anche non trovare il romanzo divertente, in questo caso potete cavarvela da snob con una battuta sulle battute, tipicamente irlandese. “Perché le battute irlandesi sono così stupide?” chiede un tizio. “Perché così gli inglesi non le capiscono”, è la risposta (grafia di “irlandese”, nell’originale: “Oirish”, per far sentire l’accento). La smagliante traduzione che sta preparando Gianni Celati vale almeno un altro tentativo.
Non sarete soli, reietti o bizzarri, se per caso “Ulisse” vi piace. Scordate per un attimo “Lost”, dove il romanzo compare tra le mani di Benjamin Linus, insospettendo gli altri naufraghi sull’isola. Fate un giretto in rete. I tentativi di ridurre “Ulisse” in tweet sono svariati. Chi riprende il capitolo “Rocce vaganti”, 19 personaggi che sbrigano le loro faccende a Dublino, crea per ognuno di loro un account, li fa chiacchierare nel limite dei 140 caratteri (da “Wandering Rocks” a “Twittering Rocks”, esclusa la lunghezza, non va perso l’effetto che Joyce voleva raggiungere). Chi spezzetta in 96 sezioni le 783 pagine del romanzo nell’edizione Vintage (le traduzioni italiane di regola ne aggiungono parecchie), e chiede di ridurle a quattro tweet. Rispondono attori di Broadway, sceneggiatrici della serie “Scrubs”, collaboratori di McSweeney’s, studenti triestini di Ingegneria. Per capirci: non il professore di provincia che ogni anno rilegge il romanzo, e tra le righe trova le prove di qualche complotto. L’applicazione “Ulysses ‘Seen’” (che finalmente ha passato il visto di censura) propone la bella e fedele versione a fumetti di Robert Berry, una lista dei personaggi, il commento dettagliato di Mike Barsanti. Scarse ma sincere le parole d’invito: “Vogliamo presentarti un vecchio amico dalla pessima reputazione”.

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