lunedì 1 ottobre 2012

Haiku, la cura di Zanzotto


Marzio Breda, “Corriere della Sera. La Lettura”,  30 settembre 2012

«Chi teme di soffrire soffre già di ciò che teme». Nelle pause che gli concedevano i suoi malanni, da ogni punto di vista leggendari, Andrea Zanzotto a volte scherzava su se stesso citando l'aforisma dedicato da Montaigne agli ipocondriaci. Certo, non erano pause durature. Tra attacchi allergici o gastrici e insonnie (lo teneva desto lo scorrere del sangue nelle vene, che gli rimbombava in testa «come lo scroscio di una cascata», tanto da fargli scrivere, in un verso di autodiagnosi, «veglio in iperacusia»), quella catena di traumi, acciacchi, mezze fisime e nevrosi era davvero invalidante. Ma ci fu una stagione nella quale la famiglia e gli amici si preoccuparono seriamente, per lui: gli anni tra il 1982 e l'84. Quando, all'ingresso nella cosiddetta terza età, si ritrovò schiacciato da una depressione tenebrosa, che lo spinse a vari ricoveri in ospedale e a entrare in analisi. Per inciso, un'analisi plurale, con specialisti di diverse scuole.
«Una pesante sfiducia mi assediava... mi sentivo minacciato dal senso di un'irrealtà di tutto e da una sterile panfobia», scrisse tempo dopo, sfogandosi nelle cartoline postali che usava per la corrispondenza con gli interlocutori più intimi o aprendo squarci rivelatori in qualche colloquio e intervista. Paterno e fraterno insieme, dato che aveva il genio dell'amicizia, ammoniva sui rischi del disagio e del disordine psichico così come li aveva verificati sulla sua pelle. Confessava che quella sofferenza, tra spossatezza e passività, lo aveva portato sull'orlo dell'inaridimento, dell'afasia. «È stato un momento cupissimo, come se fossi stato immerso in una palude limacciosa, anzi una fogna, e le parole — pochissime, all'inizio simili a crampi verbali — mi venivano fuori alla stregua di bolle. Gargarizzavo un flusso di frammenti e variazioni, ritorni e ripensamenti, con ibridazioni linguistiche... oscillavo tra il mutismo e un balbettio di pochi vocaboli, drenando degli pseudo-haiku che, in una specie di effetto calamita, si congegnavano a gruppi, a coroncine...
«Li componevo in un inglese ridotto quasi al grado zero, minimo e minimalista, perché quella lingua la conoscevo poco ma mi piaceva esplorarla. Di rado affioravano anche formazioni in dialetto o mi aggrappavo a intarsi in un italiano lucente, forse per un inconsapevole omaggio alla lingua di Dante, Petrarca e Ariosto, e più probabilmente per notificarmi presente a me stesso con un bip-bip vitale... Ma, nel mio stato patologico, a prevalere erano quelle stille che spesso esprimevo in un neoinglese "petèl", cioè il linguaggio vezzeggiativo che utilizzano le madri e le nutrici cullando i figli ancora nel nido della pre-infanzia... un tuffo nell'oralità perpetua... Versi che non possono forse dirsi "inglesi" e che tuttavia in qualche modo lo sono».
Un capitolo piuttosto misterioso nella sua vasta opera, la gemmazione degli haiku di Zanzotto tra la primavera e l'estate del 1984. Il poeta vi alludeva, ma conservando i testi in un cassetto. Da lì, negli ultimi tempi, ne faceva saltar fuori qualcuno, detriti della sua storia da regalare a ricercatori e studiosi.
Raccontava che ispirarsi «in libertà» (ecco perché li chiamava pseudo-haiku) ai codici della tradizione giapponese — 17 sillabe, ripartite in tre versi dei quali due quinari alternati a un settenario — gli aveva permesso di superare la fase forse più critica dell'esistenza. Era stato uno strumento di auto-aiuto. Aggiungeva di averne ricavato — con il diario che aveva ripreso a tenere — una prova del principio freudiano per cui il nevrotico è un malato che si cura con la parola, anzitutto la propria, e infatti per lui la poesia era «una forma di particolarissima autoanalisi». Cioè «ferita e farmaco», in un processo di continui ondeggiamenti, slogature e prospezioni dentro l'inconscio (e per lui dentro le ragioni fondanti della letteratura) più che un semplice «pensare contro se stessi», secondo la convenzione di Jacques Lacan. «Scrivevo, e non mi ponevo il problema se ciò che facevo contasse qualcosa. Mi lasciavo andare a una deriva più o meno pigra che a volte si trasformava in un "dittar dentro" somigliante anche a un "diktat", a qualcosa di impositivo e di cui non mi potevo liberare...».
Spiegava che la parentesi di allora rappresentava, oltre a una riabilitazione a scrivere, «una cerniera» nel suo percorso creativo, uno scatto stilistico, un passo laterale verso le poesie di Meteo. Anticipava che — fedele al canone nipponico — in quella sperimentazione tutta giocata su densità e brevità, freschezza, sottigliezza e rapidità del pensiero, incalzavano «elementi di paesaggio e di natura» e altre «suggestioni effimere», legate ai lampi cromatici del mutare del clima e alle fioriture di alcune piante selvatiche. Ad esempio i papaveri e i topinambur «che infiorano i fossi come raggi di sole su un piatto di stagno». E spesso contestualizzava quei vaghi cenni con confronti tra l'italiano e l'inglese. Mantenendo sullo sfondo il suo dialetto del Piave, base verbale in cui si riconosceva, quasi un fossile idiomatico irto di apocopi («ho dit, ho fat, son 'ndat...»): un campo da dissodare a parte, per chi voglia capirlo, e che comunque, grazie a lui, ha reso Pieve di Soligo «un piccolo grande cuore del mondo», come ha detto Claudio Magris.
Dell'italiano aureo di Dante e Petrarca, «illustre e monumentale», avvertiva «le seduzioni e altezze del canto interno alla lingua». Mentre di quello contemporaneo, «esangue e traballante», coglieva sintomi di usura e di smottamento nel parlato e nella scrittura in prosa, e soprattutto lo urtavano le «atrocità fonico-ritmiche» e il «costoso» polisillabismo. Questo insieme gli procurava l'impressione di un'iperdiafania, «come quando si fanno delle radiografie e un'iperdiafania svela che un tessuto si è sfilacciato».
Dell'inglese lo incuriosivano «le ricchezze allitteratorie e l'educazione al monosillabismo di cui noi siamo deprivati», e anche per questo gli pareva (nonostante «la pappa lessicale» in cui si era ridotto, nella sua versione esperantizzata tra canzoni, aeroporti, economia, scienza e tecnica) «rapido, fiammeggiante, guizzante». Perciò adatto al «baluginio di piccoli atomi» che era emerso dagli strati profondi e antichi della sua psiche. Riflessioni allargate a quelli che chiamava gli «stati caotici di Babele, della torre bla-bla-bla» che, «per castigo di Dio, ci ha privati di un idioma universale». Da «giardiniere e botanico delle grammatiche» in grado di destreggiarsi in almeno quattro o cinque lingue, condivideva con amici e anglisti (tra questi Sergio Perosa) dubbi o incertezze nella revisione dei testi e nella loro traduzione. Sì, perché un po' di anni dopo — superando le ansie del tradurre/tradire, ossia del trasferire un sistema fonetico in un altro e quindi decostruire e aggiornare, imitare — Zanzotto decise di auto-tradursi in italiano. Producendo «versioni parallele e semiautonome». Spiazzanti.
Ne è nata una raccolta bilingue pubblicata ora negli Stati Uniti e in Gran Bretagna (Haiku for a season, The University of Chicago Press, a cura di Anna Secco e Patrick Barron), che è l'ultimo libro dal lui licenziato in vita. Una preziosità assoluta. Alla quale si aggiunge la ristampa (per l'editore Einaudi) di Filò, elegia in dialetto sulla fine del dialetto, del 1976, nato a margine di una collaborazione con Federico Fellini per il film Casanova, corredato pure da una «cantilena» e un «recitativo» composti per la pellicola. Non sono le sole novità che lo riguardano. Altri studi e convegni sulla sua opera sono in cantiere. A dimostrazione che quello che, per «Le Monde», è stato nel Secondo Novecento «le plus moderne, plus savant, plus émouvant poète italien» e più volte vicino al Nobel, continua a parlarci.
Tra poco ricorre il suo 91° compleanno (il 10 ottobre, come preferiscono ricordare in famiglia) e il primo anniversario della scomparsa (il 18 ottobre 2011). Dietro la casa alle cui finestre Zanzotto si appoggiava con mani fragili per guardare ancora una volta «le sublimerie» del labirinto di boschi, colline e prealpi trevigiane, oggi stanno tirando su un palazzo destinato a oscurare l'orizzonte. Tutto regolare, per carità, con le carte bollate, i timbri e le licenze previsti dalla legge. Ma a nulla vale il fatto che, forse per scusarsi dell'incoerenza o forse per apparentarsi (con il pretesto di un ossequio abusivo) alla sensibilità del poeta per la bellezza del suo paesaggio e per l'epopea contadina della sua terra, abbiano voluto battezzarlo «condominio Filò».
Preclusioni, barriere. Di sicuro Zanzotto ne sarebbe umiliato e sconfortato. Si sentirebbe in gabbia e senza respiro. In esilio a casa propria. Magari sarebbe slittato in un'altra fase di drammatica e stremata malinconia, simile a quella riassunta — tra nausea e fecondità — nelle pagine di Haiku for a season.
Versi che affiorano da quella lontana parentesi di sofferenza e che aveva steso sentendoli poi echeggiare come un mugolio della mente, tra il frusciare delle foglie e il rumore dei suoi passi, durante le passeggiate nei boschi. Commoventi rivelazioni a se stesso, e a noi. «Delicate makeup of silk / in reflections of far distances — / all simple thought is near» («Delicato belletto di seta / nel riflesso di grandi distanze — / ogni pensiero semplice è vicino»). O, più ancora, questi altri versi: «Lost-shy petals of panels,/ clipped minitalks, past thoughts — / little bitter teeth biking» («Timidi-perduti petali sui vetri / mini-discorsi spezzettati, pensieri passati — / mordenti asprigni dentini»). «Parallel worlds, roots / of vitreous deep languages — / bubbles weep in throats» («Mondi paralleli, radici / di vitrei profondi linguaggi — / bolle piangono in gole»).
Immagini dalle quali sono lievitate le sue poesie ultime, del 2009, riunite in Conglomerati. Come quella, straordinaria, intitolata «Papaveri»: «Fiammelle qua e là per prati / friggono luci disperate ognuna in sé / quelle siamo noi, racimoli del fuoco / che pur disseminando resta pari a se stesso / è zero che dona, da zero, il suo vero».

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