sabato 7 luglio 2012

L'italiano è un ogm


Paolo Di Stefano, L’Italiano  è un OGM, “La Lettura”, 25 marzo 2012

L’italiano lingua in movimento, con tante e tali spinte e controspinte da far venire le vertigini persino agli studiosi. Perché per molti versi quella che sembrava una progressione verso la lingua omologata e tecnocratica vaticinata da Pasolini ha avuto esiti imprevisti. Ne parla con chiarezza esemplare il linguista Giuseppe Antonelli nel saggio d’apertura di un volume miscellaneo, Modernità italiana (Carocci editore), a cura di Andrea Afribo e Emanuele Zinato. Se sin dagli anni Novanta si poteva affermare (con Pier Vincenzo Mengaldo) che «la vera realtà parlata dell’italiano sono gli italiani regionali», cioè una lingua geograficamente connotata che coincideva con l’italiano delle emittenti locali, oggi si aggiunge qualcosa di nuovo. Michele Cortelazzo, che studia da anni i linguaggi giovanili, riconosce: «La variazione regionale è una ricchezza tuttora viva e forte. Per quanto i giovani siano sempre più italofoni di nascita, per quanto tutti entrino in contatto con realizzazioni standard dell’italiano, resta forte il radicamento, prima di tutto (ma non esclusivamente) nella pronuncia e nella prosodia, nella realtà espressiva locale. E la componente locale è ancora una fonte rilevante di espressività».
Opinione confermata (e ulteriormente precisata) da Lorenzo Coveri, un linguista che si è molto concentrato sulle emergenze espressive della musica leggera: «Dopo una fase di netto rifiuto del dialetto, di “vergogna del dialetto”, coincidente con il boom economico degli anni Sessanta e con la damnatio del dialetto nella scuola, con l’aumento dell’italianizzazione, assistiamo ad un recupero del dialetto e dei caratteri regionali, reso possibile proprio dal fatto che il dialetto non è più una scelta obbligata, ma un’alternativa libera, una possibilità espressiva ulteriore. Lo si vede anche nell’uso del dialetto (o delle varietà regionali) a livello artistico (poesia, teatro, cinema, radio, televisione, canzone, letteratura), per cui si è parlato di “risorgenze” dialettali».
E il nuovo? Su questa base, che gli specialisti usano definire neostandard, si inseriscono tendenze tutt’altro che secondarie provenienti dalla cosiddetta società della comunicazione diffusa. Il «paradigma digitale» ha comportato una rivoluzione: la rivincita della scrittura, dovuta alla «neoepistolarità tecnologica», al dilagare cioè di sms, mail, blog, social network. «Per la prima volta, — osserva Antonelli — l’italiano si ritrova a essere non solo parlato, ma anche scritto quotidianamente dalla maggioranza della popolazione». Ma allora, è lecito chiedersi, come si spiegano gli appelli allarmati sull’analfabetismo di ritorno? Per esempio l’ultimo, lanciato da Tullio De Mauro, che constatava come il 70 per cento della popolazione italiana sarebbe al di sotto del livello minimo di comprensione nella lettura. Il fatto è che saper digitare (al netto degli errori ortografici onnipresenti) non equivale a saper scrivere, cioè avere capacità nella gestione testuale e sintattica. Al punto che il libero trasferimento nella scrittura dei moduli dell’oralità potrebbe creare una sorta di nuovo Medioevo ortografico analogo a quello prodotto nell’Ottocento dall’esordio di grandi masse nella sfera della scrittura. La desacralizzazione della scrittura, che ha alzato la soglia di tolleranza a tutti i livelli («l’atteggiamento per cui qualunque soluzione va bene»), attiene, secondo Antonelli, più all’ambito sociolinguistico che a quello strettamente linguistico.
Lo confermano gli studi dedicati da Elena Pistolesi e da Vera Gheno alla scrittura su Internet e via sms: fretta, superficialità, scarsa concentrazione (specie nei giovani, non a caso ribattezzati «generazione venti parole») precedono la scrittura, ma hanno visibili ricadute nelle formulazioni —stereotipate, abbreviate e ripetitive — tipiche della socializzazione in rete o via telefono. E si potrebbe aggiungere che la frammentazione del periodo e l’abuso del punto fermo dilagano anche nel giornalismo più «brillante», a consolidare quello che Silvia Morgana chiama «un ritmo impressivo ed enfatico, non diverso da quello dei trailer cinematografici o dei lanci televisivi».
In questo italiano geneticamente modificato (verso il basso) agisce poi un fenomeno parallelo e insieme coincidente: il trionfo di un’informalità indifferenziata anche nella comunicazione orale non familiare. Già una decina d’anni fa, Alberto Sobrero fotografava questa tendenza: «spensieratamente, si parla e si scrive “come viene”, senza il minimo dubbio, senza un attimo di esitazione». Ciò vale anche nelle occasioni che un tempo richiedevano registri di maggior autocontrollo (vedi il «populismo» diffuso nel linguaggio politico con lo scopo di acquisire facile consenso). È avvenuto un capovolgimento: mentre in passato l’italiano risultava deficitario negli ambiti informali, con il terzo millennio risulta carente per gli usi formali. L’abbassamento finisce per rispecchiarsi nella tv, anche se in genere si pensa, erroneamente, il contrario: che si tratti di una conseguenza diretta della trivialità televisiva. Del resto, la volgarità che traspare da molte intercettazioni telefoniche, infiorettate da centinaia di «doppie zeta anatomiche», è un dato indiscutibile; idem il fiorire di parolacce nella canzone. Insomma, il sempre più esile confine tra pubblico e privato, visibilissimo sul piano sociale come in quello politico, non può che riflettersi nella lingua. Una lingua che se si impoverisce da un lato, si colora, per altri versi, di espressioni dialettali utilizzate con consapevolezza espressiva e di moduli gergali. A volte con soluzioni originali: «Le nuove, e vecchie, gergalità giovanili — dice Cortelazzo — hanno il ruolo di varietà di formazione; cioè di esercizi nei quali il parlante manifesta il suo dominio sulla lingua, soprattutto in chiave ludica. C’è il gregario che ripete le parole del gruppo, ma c’è il campione più inventivo che al posto di definire il preside con un banalissimo “stronzo”, lo chiama “ameba comatosa”».

L’affiorare di elementi locali e gergali va di pari passo con l’imperversare di anglismi. Ne viene fuori un lessico glocal, benché, a differenza di quel che ritengono i puristi, la presenza anglo-americana non sia tale da agire in profondità: le nuove voci straniere che entrano nel vocabolario hanno spesso vita breve e vengono di continuo sostituite da altre. Sicché il tasso di anglismi non supera mai una soglia tale da intaccare il nucleo della lingua spontanea. C’è semmai una presenza di anglismi tecnici (soprattutto di area economica): è questo il polo che, a discapito del vecchio modello letterario o burocratico capace di imporre la propria autorità, va acquistando maggior prestigio. Non sono più i vocaboli aulici ma i termini tecnici, che danno un’idea insieme di efficienza e di modernità, a configurarsi come status symbol. Non è più il latinorum di don Abbondio, ma l’inglesorum settoriale di economisti e politici o economisti-politici a emanare il fascino irresistibile (e opaco) del potere.

Aldo Grasso, Ha vinto il facilese, “La Lettura”, 25 marzo 2012

L’antilingua della televisione? I milioni d’italiani che seguono il calcio capiscono davvero i significati di «imbucata», «inerzia che si sposta» o «approcciare la fase offensiva» e altre simili amenità? Il linguaggio sportivo è da sempre un linguaggio settoriale e dunque pieno di tecnicismi, ma con la tv il gergo sportivo è letteralmente esploso, inquinando il nostro già scarso bagaglio linguistico. Ma allora è vero, come sostengono alcuni, che una neoignoranza arriva copiosa in tutte le case sotto forma di sproloquio, che il degrado della nostra lingua è inarrestabile proprio a causa della tv? È vero che la tv spazzatura ha sdoganato il turpiloquio, le parolacce e varie immoralità? O è vero che la caratteristica dell’attuale tv è limitare il linguaggio a una pura funzione fatica, di contatto? Non di rado, infatti, sotto il fatuo verbigerare e il gergo eletto a standard si nasconde il vuoto dei contenuti. Ma com’era cominciato il rapporto fra lingua e tv?
Era il 3 gennaio 1954; era una domenica; erano quasi sessant’anni fa. Nasceva ufficialmente la tv italiana, dopo alcuni anni di laboriosa clandestinità. Adesso le rievocazioni si sprecano, ogni più modesta comparsa reclama un posto in cartellone. Eppure l’avvento della tv ha simbolizzato nella storia sociale dell’Italia una rivoluzione paragonabile ai grandi sommovimenti epocali, come le guerre, le epidemie, il boom economico. La tv ha segnato una data con cui è necessario confrontarsi ogni giorno per capire qualcosa di questo stranito Paese. Basterebbe un solo elemento: insieme con la radio, la tv ha unificato linguisticamente la penisola, là dove non vi era riuscita la scuola. Quando nei bar i primi televisori si collegarono con la Svizzera per i campionati mondiali di calcio, metà della popolazione italiana aveva seri problemi con la lingua italiana. Nel 1951, gli analfabeti «totali» erano circa 5 milioni e mezzo, per moltissime persone «il dialetto era l’idioma normalmente usato in ogni circostanza» solo poco più di un terzo della popolazione italiana (35,42 per cento, pari a oltre 15 milioni di individui) aveva abbandonato l’uso del dialetto come unico ed esclusivo strumento di comunicazione. Il servizio militare rappresentava per molti giovani la prima uscita dal confine del campanile: dal ristretto al distretto. Ed era il 1954.
Ce lo ripetiamo sempre: la tv non ha unificato l’Italia con la lingua di Dante o di Manzoni ma con quella di Mike Bongiorno, del festival di Sanremo, di Tognazzi e Vianello, di Enzo Tortora, dei telegiornali. L’ha unificata con quella strana lingua che Beniamino Placido chiamava il «facilese». Si è trattato comunque di un fenomeno dalle proporzioni inusitate, che ha accelerato i ritmi della vita sociale come mai prima era accaduto. «L’italiano televisivo nasce, infatti, come lingua di acculturazione e di formazione identitaria da parte della Tv di Stato che si ispirava agli intenti pedagogici della televisione europea, e della Bbc in particolare». E dunque, si chiedono ora Gabriella Alfieri e Ilaria Bonomi, la tv fu buona maestra e ora è cattiva maestra di lingua? Ieri ci ha insegnato l’italiano e oggi c’insegna a disimpararlo? Lingua italiana e televisione (Carocci) è un attento e avvincente studio sulla lingua italiana veicolata dalla tv. Passa in rassegna i generi principali — dall’informazione all’infotainment, dal talk al reality, dallo sport alla pubblicità — e ci descrive la lingua della tv come una realtà molto articolata, una mescolanza di livelli, registri e stili tanto diversa da quell’italiano omogeneo e tendente allo standard (basti pensare che il telegiornale era letto da speaker, non da giornalisti) che caratterizzava la tv delle origini. Già, ma cos’è l’italiano televisivo? Alfieri e Bonomi ci ricordano opportunamente che la lingua della tv «rientra nella categoria del trasmesso, una varietà che i linguisti hanno individuato sull’asse della diamesia (variazione della lingua secondo il mezzo fisico impiegato, dal greco dia, “attraverso”, che indica differenza, separazione, e mésos, “mezzo”), ai cui poli estremi stanno lo scritto e il parlato, e che indica la modalità di comunicazione propria dei mezzi che trasmettono a distanza con la voce (telefono, radio e, con la componente visiva, tv e cinema) e con la scrittura (sms, email, varie scritture della Rete)».
Pochi ricordano che nel 1973 (altri tempi!) la stessa Rai fece una riflessione sulle vicende storiche della lingua italiana. Il programma si chiamava Parlare leggere scrivere, era firmato da Umberto Eco, Tullio De Mauro, Piero Nelli, che ne curava anche la regia (collaborazione ai testi di Enzo Siciliano), e si proponeva di ricostruire in cinque puntate la storia della lingua italiana dall’unità nazionale ai primi anni Settanta, con particolare attenzione all’intreccio tra questioni linguistiche e vicende storiche della nazione. Attraverso materiale di repertorio, piccoli sceneggiati, interviste, la ricostruzione della storia linguistica seguiva un vago filo cronologico, che si dipanava fra eventi simbolici quali la battaglia di Custoza, lo sbarco di Pisacane a Sapri, la Prima guerra mondiale e l’avvento del fascismo, la guerra di Spagna e la Resistenza, a cui seguiva con ampio salto temporale l’analisi dei primi anni Settanta e il ruolo fondamentale svolto dalla tv. La storia linguistica è, per sua natura, storia sociale e culturale di una nazione, come sostiene Massimo Arcangeli in Itabolario. L’Italia unita in 150 parole (Carocci), è parte viva del «carattere» dell’Italia.
«La lingua della televisione di oggi — scrivono Alfieri e Bonomi — appare dunque come una realtà molto varia, una mescolanza di livelli, registri e stili tanto diversa da quell’italiano omogeneo e tendente allo standard che caratterizzava… la paleotelevisione, giudicato con certo eccessiva severità, da Pasolini come un “bell’italiano, grammaticalmente puro” in cui “la comunicazione prevale su ogni possibile espressività”». Si va dunque da un polo più alto rappresentato da una parte dell’informazione e della divulgazione a un polo più basso, all’italiano dei reality «sciatto, trascurato, addirittura triviale». La tv è la rovina della lingua italiana? Chissà, forse a Pasolini questo italiano substandard, poco formale ma molto espressivo, non sarebbe dispiaciuto. Forse, anche lui, lo avrebbe chiamato «facilese».

Aldo Grasso

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