lunedì 15 luglio 2019

Le tre nobildonne decapitate per adulterio




AMEDEO FENIELLO, “La Lettura”, 14 luglio 2019

Italia (poco) rinascimentale Nel giro di 34 anni, dal 1391 al 1425, le mogli di tre potenti signori, che governavano Mantova, Milano e Ferrara, vennero giustiziate per ordine dei loro mariti con l’accusa di averli traditi. Un libro rievoca Agnese Visconti, Beatrice di Tenda e Parisina Malatesta: costrette a subire matrimoni dinastici, si ricamarono spazi di vita fatti di lusso e buone letture. Anche procurarsi un amante, in casi del genere, diventava quasi una scelta di autonomia e di libertà

Agnese Visconti: decapitata nel 1391. Beatrice di Tenda: decapitata nel 1418. Parisina Malatesta: decapitata nel 1425. Tre storie. Un medesimo destino, nell’Italia rinascimentale. Vicende non sconosciute, che anzi hanno goduto, nell’Ottocento, di una certa gloria musicale. Parisina venne cantata da Gaetano Donizetti e poi (su libretto di Gabriele d’Annunzio) da Pietro Mascagni. Beatrice di Tenda è un’opera di Vincenzo Bellini. Mentre Agnese rivive nel melodramma del maltese Antonio Nani. Da allora, però, sono cadute nell’oblio, al quale hanno posto rimedio due storici francesi innamorati dell’Italia, Élisabeth Crouzet-Pavan e Jean-Claude Maire Vigueur, che hanno dedicato a loro il volume Décapitées (Albin Michel), in uscita il 1° ottobre da Einaudi.
L’azione ci rimanda a un tempo particolare, tra la fine del Trecento e il primo ventennio del secolo successivo. All’Italia della formazione degli Stati territoriali, in una situazione magmatica, non ancora ben fissata nella sua intelaiatura politica, raggiunta in seguito con la pace di Lodi del 1454. Il racconto si sviluppa tra le corti di Mantova, Ferrara e Milano, alla ricerca di queste donne, della loro vita e del loro tragico destino. Sono una sorta di cold case da dipanare, dicono gli autori, non per rintracciare un ipotetico serial killer, ma per ricostruire uno scenario unico e originale, legato a un medesimo filo rosso: l’accusa per tutte e tre di adulterio e la condanna alla decapitazione. In un contesto di potere, intrighi, gelosie, rancori, arbitrarietà, alta politica e bassa cucina giudiziaria.
Solo per Agnese Visconti ci fu un processo. Per Beatrice, tortura e sentenza. A Parisina toccò solo un ordine, rapido e glaciale, del marito. Agnese, moglie di Francesco I Gonzaga, signore di Mantova, fu la prima, giustiziata alla mattina presto del 9 febbraio 1391. Era stata sottoposta a un procedimento regolare, con verbali, testimonianze, giudici e una sentenza di morte, per lei e per il suo amante, il valletto di camera Antonio da Scandiano: Agnese, che era una nobildonna, ottenne l’onore della decapitazione; per lui, un semplice servitore, ci fu l’umiliazione dell’impiccagione. Più complessa è la storia di Beatrice, che fino alla fine giurò di essere stata fedele al marito e di non
avere avuto nessun amante. Nonostante ciò, venne costretta a posare la testa sul ceppo e ad affidare l’anima a Dio il 13 settembre 1418. Sulla sua presunta colpa, nessuna testimonianza diretta, ma tutte di seconda mano, lontane dagli avvenimenti, come il racconto dell’umanista Pier Candido Decembrio, autore della Vita del marito di Beatrice, il duca di Milano Filippo Maria Visconti. La donna era innocente o no? I più dicono di sì e aggiungono che la storia dell’adulterio fu inventata di sana pianta da Filippo, per sbarazzarsi dell’ingombrante presenza di lei.
La terza è forse la storia più tragica: una donna di 21 anni, Parisina Malatesta, che viene fatta decapitare, il 22 maggio 1425, da un momento all’altro, di notte, di sorpresa, dal marito, Niccolò III d’Este, signore di Ferrara, insieme al suo amante. Che però non è uno qualsiasi, un valletto, un cameriere, un musico. No.  È addirittura il figlio del precedente matrimonio di Niccolò, Ugo, il «bel Ugo», di appena un anno più giovane della ragazza. Condannati anch’essi a morire insieme. Tre storie, una medesima faccia tragica della medaglia. E un retroscena ricco di particolari, a partire dagli esecutori, i maschi, i mariti.
Perché tutte e tre le donne furono spose di grandi signori italiani, appartenenti a dinastie di primo piano come i Gonzaga, i Visconti e gli Este. E, per la prima volta in assoluto, vennero punite per un reato di adulterio con la pena più grave possibile, la morte per decapitazione. Perché? Che cosa spinse i mariti a prendere una decisione tanto grave? A queste domande, gli autori rispondono con una spiegazione oltremodo complessa, che coniuga un insieme di motivi, sotterranei, intimi, irrazionali, legati alla personalità delle tre donne e dei mariti, alle loro emozioni, alle passioni, ai rancori, con tanti altri fattori che, pur tuttavia, pesarono: i vincoli sociali, il senso dell’onore offeso, i calcoli politici, i giochi di potere.
Tutte e tre le donne appartenevano al medesimo ambiente aristocratico. Agnese era figlia del grande Bernabò Visconti, signore di Milano. Beatrice era la meno prestigiosa, ma la più ricca e potente, ereditiera del suo primo marito, Facino Cane, tra i più temuti signori della guerra italiani. Parisina era una Malatesta, e il suo zio e tutore, Carlo, le permise di fare un gran bel matrimonio con il più vecchio e titolato Niccolò d’Este. Donne, insomma, che non scelgono il matrimonio ma lo subiscono, con decisioni a priori, fredde e senza sentimenti, secondo strategie precise di una logica politica che passava molto al di sopra delle loro esistenze. Costrette a una vita separata, nelle loro stanze, nelle loro dimore, nei loro palazzi, lontane da mariti spesso indifferenti se non brutali, come Niccolò—uomo dalle mille amanti—o lo stesso Filippo Maria, evidentemente omosessuale.
Sono ridotte in una condizione di strumentalità, all’interno della quale esse si ricamano spazi di vita personali, distaccati, attorniate dal lusso, in un clima di cultura, di buone letture, di toni musicali. Donne capaci anche di esprimere il proprio carattere, come nel caso di Beatrice, tanto da tener testa al marito e forse, proprio per questo, odiata. Dove forse, ed è una delle chiavi di lettura del libro, l’adulterio si trasforma quasi in una scelta consapevole di autonomia e di libertà, l’unico spazio di vita non scandito da altri, ma costruito da loro e per loro. Tre donne, rivelate nel loro destino in questo libro. Che rivivranno ancora il prossimo settembre nel corso del festival del Medioevo (dal 25 al 29 a Gubbio), che avrà come tema Donne. L’altro volto della storia.


Gli autori

Nata a Parigi nel 1953, Élisabeth Crouzet-Pavan insegna storia alla Sorbona ed è una specialista di vicende della Repubblica di Venezia e più in generale del tardo Medioevo. Jean- Claude Maire Vigueur, nato nel 1943, insegna Storia medievale all’Università di Roma Tre. Si occupa principalmente dei Comuni italiani. Tra i suoi libri usciti nel nostro Paese: L’ altra Roma (traduzione di Paolo Garbini, Einaudi, 2011); Cavalieri e cittadini (traduzione di Aldo Pasquali, il Mulino, 2004). Con Enrico Faini ha pubblicato Il sistema politico dei Comuni italiani (Bruno Mondadori, 2010)
Inoltre Maire Vigueur ha curato il volume a più voci Signorie cittadine nell’Italia comunale (Viella, 2013) L’epoca Le vicende ricostruite nel libro Décapitées risalgono alla fase in cui si andò delineando un equilibrio tra le signorie italiane, ormai strutturate come entità statali. Il nuovo assetto venne sancito con la pace di Lodi, firmata il 9 aprile 1454 tra le due principali potenze del Nord: il Ducato di Milano e la Repubblica di Venezia .

venerdì 14 giugno 2019

C’è un velo su Bisanzio


Paolo Mieli, "Corriere della Sera", 11 giugno 2019

Un saggio di Tommaso Braccini (Salerno) sulle antiche vicende della città che  poi divenne Costantinopoli e oggi è Istanbul. Un nodo strategico essenziale per i traffici di ogni tipo sulle cui origini non esistono fonti davvero affidabili
Nel IV secolo a. C. lo storico Teopompo di Chio riferiva di come ai suoi tempi Bisanzio fosse già molto conosciuta. Conosciuta anche come città del vizio, dal momento che gli abitanti si accalcavano per l’intera giornata al porto e al mercato tra postriboli e bettole, in cui affluiva il vino delle navi dirette verso il Mar Nero. Il commediografo Menandro in un frammento riferisce di «mercanti tutti ubriachi». Lo storico Filarco sosteneva che i Bizantini erano soliti affittare agli stranieri le loro stanze da letto, «mogli comprese». Stratonico di Atene alla metà del IV secolo a. C. raccontava che Bisanzio era soprannominata l’«ascella della Grecia» per i cattivi odori che la città emanava, con un probabile riferimento al grande commercio di pesce fresco ed essiccato. Si può dire che all’epoca l’odierna Istanbul fosse già famosissima. In ogni senso.
La colonia greca Byzantion aveva mille anni di età allorché Costantino, all’inizio del IV secolo dell’era cristiana, fondò la Nuova Roma (questo il nome ufficiale che fu dato a Costantinopoli) sul Bosforo, fa notare Tommaso Braccini, in apertura di Bisanzio prima di Bisanzio. Miti e fondazioni della Nuova Roma, che sta per essere pubblicato da Salerno. Dopo la fondazione di Costantinopoli, «Byzantion, oltre che una città è diventata», sostiene Braccini, «un laboratorio mitografico in piena regola e non ha ancora smesso di esserlo». Ad alimentare questo «laboratorio mitografico» è stata innanzitutto quella che potremmo definire la propaganda ufficiale, ma nel corso dei secoli ha giocato un ruolo importante anche «il bisogno dei suoi abitanti di superare il trauma di una serie di rifondazioni radicali che talora li hanno fatti sentire come alieni in una terra incognita e potenzialmente ostile».
Le «rinascite», secondo le leggende medievali, «non hanno azzerato quel che c’era prima, ma hanno progressivamente portato a compimento quel che era previsto da sempre». Ragion per cui quello delle origini di Bisanzio-Costantinopoli-Istanbul è un vero rompicapo per gli storici alle prese con un difficile lavoro di distinzione e di integrazione, tra impronte storiche vere e proprie (poche), ricostruzioni mitologiche e tracce archeologiche. A questo proposito Braccini riprende alcuni elementi già presenti nel libro da lui scritto con Silvia Ronchey, Il romanzo di Costantinopoli, edito da Einaudi. Ma qualcosa si può ritrovare anche nello straordinario L’impero che non voleva morire. Il paradosso di Bisanzio (640-740 d.C.) di John Haldon (Einaudi) e nel libro del turco Tursun Bey, La conquista di Costantinopoli, pubblicato da Mondadori.
Il principale tra gli elementi che contraddistinguono Bisanzio fin dai suoi albori è costituito sicuramente dalla cornice naturale della città, a cavallo tra due continenti: il Bosforo, il Corno d’Oro, il promontorio Bosporio. A questa eccezionale collocazione geografica sono strettamente collegati altri elementi: l’importanza del commercio, la menzione dei viaggiatori (a partire dai mitici Argonauti) e anche gli assedi «che scandiscono di pari passo la storia reale e quella mitica della città». Su questo palcoscenico ideale si susseguono l’uno dopo l’altro i personaggi a cui viene attribuito il merito di aver fondato quella che sarà una «capitale imperiale». All’inizio — in varie fonti antiche come Dionisio — non ci sono «personalità dominanti». Viene evocato «un vero e proprio pulviscolo di colonizzatori provenienti da ogni parte della Grecia», oppure si fa cenno, forse più plausibilmente, a «un gruppo di fondatori megaresi, che si muovono lungo un Corno d’Oro e un Bosforo minutamente ricostruiti in tutti i loro anfratti, nelle calette e negli scogli». Si tratta spesso «di microtoponimi e riferimenti a piccole entità topografiche, che però significavano qualcosa nella vita di chi li vedeva ogni giorno e che, pertanto, nella ricostruzione di Dionisio, sono tutti collegati con miti e storie che spesso sono solo la variante locale di trame ben più diffuse, nell’antichità e oltre».
In passato, scrive Braccini, si è oscillato tra due interpretazioni contrapposte dei miti di fondazione di questa città, miti «che sono una componente fondamentale di ogni identità pubblica»: in una prima fase, «secondo una prospettiva positivistica, si è creduto che conservassero in ogni caso un nucleo di verità storica e che andassero accuratamente setacciati in cerca di questa sorta di pagliuzze d’oro». Successivamente, con un approccio definito «costruttivistico», si è asserito che si trattasse di mere invenzioni finalizzate a «corroborare e illustrare peculiari istanze sociali e politiche proprie delle epoche e dei contesti culturali nei quali tanti miti furono di volta in volta elaborati».
Entrambi gli elementi — sostiene Braccini — possono tranquillamente convivere: «Gli scampoli di realtà storica, spesso decontestualizzati e ridotti ai minimi termini, costituiscono altrettanti mattoni che, a fianco di veri e propri “motivi” mitici e folklorici ampiamente diffusi», contribuiscono a edificare una costruzione che non è certo neutra o oggettiva, «ma veicola volutamente l’immagine di sé vagheggiata» da chi l’ha costruita. Anche i «miti di fondazione» della colonia greca di Byzantion e l’«archeologia» relativa al passato di Costantinopoli precedente alla sua conquista da parte di Costantino «si adeguano al contesto nel quale vengono concepiti e raccontati». Alcuni temi o figure («non necessariamente attinenti alla realtà storica», specifica Braccini) si rivelano più resistenti e risultano attestati dall’antichità fino all’epoca ottomana. Altri invece sono più transitori e spesso attingono al patrimonio delle «leggende migratorie» che circolano «nel tempo e nello spazio, al contempo paradigma prestigioso e comodo serbatoio per corroborare e ampliare il passato di una città divenuta improvvisamente capitale di un impero, e successivamente, dopo il trauma di una conquista, di un altro».
Per orientarsi tra le testimonianze, spesso pochissimo note, di storici, poeti, cronisti ed eruditi distribuiti in oltre un millennio e mezzo, è pressoché obbligatorio attingere alla Patria Costantinopolitana, una collezione di opere storiche compilata attorno al 995, ai tempi del regno di Basilio II. La Patria Costantinopolitana contiene il testo sulla storia di Bisanzio scritto dal pagano Esichio di Mileto nel VI secolo. Quella incentrata sulle antichità di Bisanzio era perlopiù «una microstoria locale, trovatasi inopinatamente su una ribalta mondiale»: troppo «gracile, frammentaria e provinciale perché potesse sostenere da sola il peso di elogi all’altezza del nuovo ruolo». Il problema che si trovarono di fronte i suoi panegiristi, in prosa e in poesia, fu dunque quello «di corroborare questi miti delle origini (anche ricorrendo a “prestiti” più o meno disinvolti) e renderli presentabili». Da un lato si cercò il più possibile di «sganciare le leggende da una madrepatria greca abbastanza oscura e insignificante»; dall’altro «di riorganizzarle e rileggerle sulla falsariga della storia romana… per enfatizzare come il destino di diventare una nuova Roma fosse già fatalmente scritto nell’origine e nella storia di Bisanzio». Discorso di cui si trovavano anticipazioni già nel libro di Gilbert Dagron, edito da Einaudi, Costantinopoli: nascita di una capitale (330-451).
Lo storico Polibio ricordava come i Bizantini «abitassero un luogo che, per quanto ubicato in maniera non ottimale dalla parte di terra, godeva invece di una posizione invidiabile per sicurezza e prosperità rispetto al mare». Infatti, proseguiva, «la città dominava l’imboccatura del Ponto, al punto che non si poteva né entrare né uscire da esso senza il suo benestare». Dal Ponto giungevano merci utili e pregiate (Polibio le elenca: bestiame, schiavi, miele, cera, pesce secco) e ne conseguiva che i Bizantini ne erano i veri padroni. Lo stesso peraltro si poteva dire dell’olio e del vino che dal Mediterraneo passavano al Mar Nero e del grano che «era soggetto a flussi commerciali alterni».
Se Bisanzio avesse deciso di bloccare il transito o si fosse schierata con i Galati e soprattutto i Traci, o se non fosse mai stata fondata e il controllo dello stretto fosse stato lasciato ai barbari, ipotizza l’autore, i Greci ben difficilmente avrebbero potuto godere di tali fondamentali commerci. Per questo motivo, conclude Polibio, era giusto considerare i Bizantini benefattori comuni di tutti e non limitarsi a essere loro grati, ma «mostrarsi anche pronti ad aiutarli nel caso di minaccia da parte dei barbari». A proposito dei Traci va aggiunto che sulle origini di Bisanzio ha a lungo gravato il sospetto (Braccini lo definisce lo «spettro») che avesse avuto una parte fondamentale proprio quel popolo considerato bestiale e incivile. Ciò che aveva spesso indotto «a minimizzare (anche se mai a eludere completamente) l’apporto locale alla nascita della futura colonia». Sarebbe stato imbarazzante attribuire ai Traci un ruolo di un qualche rilievo nella fondazione di quella che era destinata a diventare la capitale dell’impero.
Ma torniamo ai traffici mercantili. Certo è, scrive Braccini, che a partire dal V secolo i diritti riscossi dalle navi in transito lungo il Bosforo costituirono una fonte di rendita sempre più importante al punto da fare gola agli Ateniesi e ad altri. I Bizantini, «liberisti ante litteram», ironizza l’autore, cercarono di ricorrervi il meno possibile, ma talora «finirono per cedere a questa tentazione soprattutto in circostanze di emergenza in cui c’era necessità di “fare cassa” rapidamente come in occasione della crisi causata nel III secolo dalla minaccia dei Galli stanziati nella vicina Tylis».
Bisanzio fu sottoposta a numerosi assedi. Il primo, riferisce Esichio, fu quello di Odrise, re degli Sciti respinto con il lancio di rettili sull’esercito degli assalitori (dopodiché i Bizantini non fecero mai male ai serpenti come ricompensa per il «servigio reso»). Il più storicamente documentato fu quello di Filippo II di Macedonia (338 a.C.) di cui si parla ampiamente nel saggio di Luisa Prandi Taverne e bevitori di Bisanzio greca: a proposito delle vicende di Leone (pubblicato dalle Edizioni universitarie di Trieste). Il Leone di cui al titolo di questo studio sarebbe stato un oratore di Bisanzio che, da un’improvvisata discussione con il sovrano macedone, ne intuì le intenzioni aggressive e poté aiutare la sua città a resistergli. Il figlio di Filippo, Alessandro Magno, avrebbe poi collocato trombe alimentate dal vento per spaventare i «popoli impuri» di Gog e Magog (i Tatari) e tenerli lontani dalla città.
L’ultimo assedio sarebbe stato quello di Settimio Severo (sul trono di Roma dal 193 al 211 d.C.). Ne parla Cassio Dione e, secondo Braccini, «il trauma della distruzione e della sanguinosa conquista della futura capitale dell’impero da parte di un imperatore romano rimase sempre vivo al punto che talora, in maniera fantasiosa, si cercò di negare» l’accaduto. Braccini da tutto ciò trae l’impressione «che le costruzioni di poeti, storici ed eruditi in merito al passato più remoto di Istanbul e, ancor prima, di Costantinopoli, siano simili alla nebbia che, nelle testimonianze di tanti viaggiatori, avvolgeva impenetrabile la città». Dal punto di vista dello storico tutto gli è parso come «un velo di affabulazioni, leggero, impalpabile, perennemente mutevole» che «sembra avviluppare gli edifici e il terreno». Qualche elemento naturale o architettonico «pare emergere, più o meno stabilmente, dalla coltre opaca»; ma a volte quello che sembrava concreto «non è che l’ennesimo miraggio». Molto meglio affrontare la «leggenda di Bisanzio» come «una costruzione culturale, spesso consapevole» che cerca di conciliare i racconti mitici «con le specificità in alcuni casi davvero notevoli, dell’antica colonia greca poi divenuta capitale mondiale». Che però conteneva tutta la sua grandezza quando era una colonia greca famosa per la promiscuità sessuale e i mercati maleodoranti.

lunedì 30 ottobre 2017

Dai Longobardi a Murat, le sliding doors d’Italia


Ben prima dei Savoia furono diversi i tentativi di unificare la Penisola, ma le sorti delle armi furono avverse. Le cocenti sconfitte militari del Regno a partire dal 1866, poi, alimentarono il falso mito dell’italiano pessimo soldato

Andrea Santangelo, "Il Fatto", 30 novembre 2017

Gli italiani vengono spesso accusati di avere scarso senso civico, poco amor di Patria e di essere pessimi soldati. Una delle spiegazioni che va per la maggiore è quella della nazione unita da troppo poco tempo. E controvoglia. L’unione fu imposta dalle élite e mai realmente accettata da ampi strati della popolazione. Per questo non ci fidiamo dello Stato e non siamo disposti a sacrificarci per esso, in primis militarmente. In realtà, ben prima dei Savoia ci furono tentativi di unificare politicamente la penisola, solo che la sorte delle armi fu avversa. Quelle battaglie sono diventate dei veri e propri turning point storico militari (o delle sliding doors se preferite la metafora cinematografica).
Dopo l’esperienza unificatrice dell’Impero romano, i primi ad avere un’idea di dominio dell’intera penisola furono quasi certamente i Longobardi. Il Papato glielo impedì, chiamando in Italia i Franchi di Carlo Magno che sconfissero i Longobardi, nel 773, nella battaglia delle Chiuse di San Michele. Il re dei Franchi divise saggiamente in due il suo esercito ed entrò in Italia da differenti percorsi (Moncenisio e Gran San Bernardo), mettendo in difficoltà il sistema difensivo longobardo, imperniato sulle Chiuse della Val di Susa. Dopo un rapido scontro, i Longobardi si ritirarono nella fortificata Pavia, dove poi si arresero. Se re Desiderio avesse sconfitto Carlo, la storia d’Italia avrebbe preso tutta un’altra piega e il Papato sarebbe divenuto un docile strumento al servizio della corona longobarda. Non andò così e lo Stato della Chiesa fu per tutto il Medioevo il principale ostacolo alle mire unionistiche italiane, chiamando spesso a suo supporto potenze estere. Anche diversi pontefici ebbero ambiziosi progetti di espansione, ma senza mai realmente possedere le forze militari per metterli in pratica.
Occorre attendere fino al Rinascimento per avere nuove possibilità di unificazione, seppur quasi virtuali e utopicamente effimere. Nel 1494, con la calata in Italia del re francese Carlo VIII, i litigiosi staterelli italiani misero da parte le loro rivalità fondendosi in una Lega militare. Il 6 luglio 1495, a Fornovo nel parmense, francesi e italiani si scontrarono lungo il Taro. La pioggia rese difficili le operazioni della Lega italiana, alzando il livello del fiume e rendendo pesante il terreno; il piano troppo complesso di Francesco II Gonzaga si rivelò un fallimento e Carlo VIII riuscì a ritornare in Francia. Agli italiani sembrò di aver vinto, in realtà le loro divisioni politiche e militari (ma soprattutto le loro ricchezze) attirarono l’attenzione di francesi e spagnoli che trasformarono l’Italia nel loro campo di battaglia. Se la Lega avesse distrutto l’esercito francese, forse avrebbe potuto dare agio a qualche stato italiano (Venezia? Una lega di più stati?) di unificare prima o poi il Paese.
Cinque anni dopo il turning point di Fornovo, il figlio di papa Alessandro VI, Cesare Borgia, costituì un suo ducato in centro Italia grazie ai soldi del padre e all’aiuto militare del re francese Luigi XII. In breve tempo si distaccò dai suoi due ingombranti sponsor e cominciò a guerreggiare di testa sua, attaccando chi gli pareva emettendo insieme anche eserciti assai innovativi tatticamente e in cui l’elemento italiano, e in particolar modo quello romagnolo, era predominante. L’improvvisa scomparsa di Alessandro VI mise in grave difficoltà economica “il Valentino”, che non riuscì più a mantenere sotto le armi tutti i soldati di cui aveva bisogno. E che questi piani contemplassero la gran parte d’Italia ce lo dice un cronista coevo del Borgia, il cesenate Giuliano Fantaguzzi: “volea fare a Cesena: palazo, canale, rota, studio, piaza in forteza, agrandare Cesena, fontana in piaza, duchessa, corte a Cesena, fare el porto Cesenatico et finalmente farse re de Toschana et poi imperator de Roma con castello santo Angello”. Un’Italia unita sotto Cesare Borgia avrebbe dato un bello scossone alla geopolitica del tempo, ma la morte di Rodrigo Borgia è stata la sliding door che l’ha evitata.
Il dominio spagnolo su gran parte delle penisola sedò ogni ulteriore tentativo di italianità. Tralasciando la folcloristica Disfida di Barletta, bisognò attendere le guerre napoleoniche per avere un nuovo paladino della nazione e una battaglia turning point. Gioacchino Murat re di Napoli e cognato di Napoleone, un progetto di unificazione raffazzonato e vago ma con tanto di proclama agli Italiani letto pubblicamente a Rimini. Si combatté una sanguinosa battaglia a Tolentino, che vide però la netta vittoria degli austriaci. Un’altra sliding door chiusa.
Fu solo con il Risorgimento di Vittorio Emanuele II, Cavour, Garibaldi e Mazzini che la porta fu finalmente tenuta aperta e si ebbe l’Italia unita.
Le prime cocenti sconfitte militari del Regno d’Italia furono il motivo per cui il nostro Paese perse per sempre la possibilità di essere una potenza militare rispettata e temuta e si dovette poi accontentare di ruoli subalterni in politica estera. La battaglia di Custoza del 1866 e quella navale di Lissa, pur combattute in netta superiorità numerica, sancirono l’incapacità italiana di fare la guerra. Il disastro coloniale di Adua, del 1896, ne fu solo l’inevitabile epilogo. Da quel momento, il cosiddetto “mondo civilizzato” ci ha sempre guardato quantomeno con malcelato disprezzo. Ed è nata la storiella che gli italiani non sanno fare la guerra perché troppo occupati a far l’amore, mangiare pizza e pasta, giocare a calcio e fare casino.

giovedì 19 ottobre 2017

I Longobardi sono ancora tra noi: l’Italia d’oggi figlia anche dei barbari


A Pavia una grande mostra riscopre il popolo che ha dato la sua impronta al Medioevo e ha cambiato per sempre la storia del Paese, nel bene e nel male


Maurizio Assalto, "La Stampa", 18 ottobre 2017

Anche uno dei dolci italiani più popolari, la colomba pasquale, pare sia da ricondursi all’arrivo dei Longobardi. La leggenda - tarda rielaborazione di un episodio tramandato nell’VIII secolo da Paolo Diacono nella sua Historia Langobardorum - narra che nel 572, dopo tre anni di assedio, Alboino si accingeva a entrare in Pavia, l’antica Ticinum, fieramente intenzionato a passare a filo di spada la popolazione, quando il suo cavallo si abbatté a terra e non volle più saperne di rialzarsi. Era la vigilia di Pasqua, e un fornaio donò all’invasore il dolce ancora caldo, in cambio della promessa a desistere dall’insano proposito. Allora il destriero si rialzò e Alboino poté fare il suo ingresso trionfale nella città che sarebbe diventata la capitale del nuovo regno barbarico.
Ma non è soltanto nella fantasiosa tradizione dolciaria che queste genti germaniche, originarie del basso corso dell’Elba, hanno lasciato la loro impronta. E neppure nella realtà tuttora viva della toponomastica e di molti nomi di persona (come quelli che terminano in -berto, da pert, illustre). La loro irruzione nella Penisola segnò una discontinuità, una rottura totale dopo la quale niente sarebbe più stato come prima. E «Longobardi. Un popolo che cambia la storia» è il titolo della mostra, curata da Gian Pietro Brogliolo e Federico Marazzi con catalogo Skira, aperta fino al 3 dicembre al Castello Visconteo di Pavia - dopo di che, integrata di ulteriore documentazione relativa ai ducati del Sud Italia, si trasferirà al Mann di Napoli (21 dicembre-26 marzo) e quindi da aprile a luglio all’Ermitage di San Pietroburgo.
Fine dell’unità politica
Oltre 300 i pezzi esposti, tra i quali 58 corredi funerari completi, per documentare, con l’ausilio di video e installazioni multimediali, una vicenda che ha diverse assonanze con il presente e lascia aperti gli interrogativi. I Longobardi sono i distruttori dell’unità politica dell’Italia, perduta nel 476 con il crollo dell’Impero romano d’Occidente e parzialmente recuperata sotto il re goto Teodorico, o coloro che cercarono di ricostituirla su nuove basi? Soltanto eversori del vecchio, o anche seminatori del nuovo, un nuovo che giunge fino a noi?
Gli «uomini dalla “lunga barba”» (langbart) erano penetrati in Italia nel 568, provenienti dalla Pannonia (attuale Ungheria) dove si erano stabiliti nel corso del V secolo. Già impiegati come mercenari nella lunga guerra contro i Goti - una sorta di Vietnam durato 18 anni, dal 535 al 553, in cui l’Impero d’Oriente si era impelagato nel tentativo di riprendere il controllo dell’Italia -, nel caos seguito alla fine del conflitto, con la Penisola spappolata come l’Iraq dopo le guerre del Golfo, avevano capito che la situazione era propizia. Non è chiaro se intendessero fermarsi o semplicemente transitare per spingersi più a Ovest (tracce delle loro presenza sono affiorate a Arles, Avignone e in diverse altre località della Provenza). Di fatto - grazie al non interventismo degli imperiali, che li lasciarono fare in funzione anti-Franchi - poterono scorrazzare per una decina d’anni in tutta l’Italia settentrionale, per poi spingersi al Centro e al Sud, dando vita a quei ducati di Benevento, Salerno e Capua sopravvissuti fino a oltre l’anno Mille, dopo che Carlo Magno nel 774 aveva posto fine al loro regno.
I Longobardi cambiarono la storia perché portarono i germi di una diversa cultura che fondendosi con quella latina e poi travasandosi in quella dei Franchi avrebbe dato luogo alla «Rinascenza carolingia» e al Medioevo così come lo conosciamo. E cambiarono la storia d’Italia perché il loro avvento comportò una serie di trasformazioni irreversibili. Dalle forme insediative e produttive (con la nascita di nuovi villaggi, i latifondi suddivisi tra gli arimanni - gli uomini liberi che portavano le armi -, la fine dei grandi traffici commerciali a vantaggio delle piccole produzioni locali) agli assetti sociali (con la decapitazione integrale della classe dirigente romana che i Goti, durante il loro predominio formalmente esercitato per conto dell’Impero d’Oriente, avevano coinvolto nella gestione del potere).
Una consolidata tradizione di studi anglosassoni ha teso a sminuire la natura barbarica e la stessa identità etnica dei Longobardi, intendendoli piuttosto come migranti pacificamente integrati, e a negare la contrapposizione delle culture. I dati archeologici e paleogenetici emersi dagli scavi degli ultimi anni parlano invece di una popolazione di conquistatori dalla marcata identità collettiva, che si mantenne pressoché inalterata per un paio di secoli.
Un regime di apartheid
Sono davvero Longobardi, e non romani abbigliati da Longobardi, quei guerrieri consegnati all’aldilà con tutte le armi e sovente con i loro cavalli e i cani, come nella sepoltura presentata in mostra, da Povegliano Veronese. Così come sono longobardi i reperti lapidei della Langobardia minor (dai monasteri di Montecassino, San Vincenzo al Volturno e Santa Sofia di Benevento) che attestano l’abbandono dell’arianesimo per aderire nel VII secolo alla fede cattolica.
Anche se smisero presto di parlare la loro lingua, adottando un latino contaminato, i nuovi padroni non si confusero però con il resto della popolazione. Numericamente minoritari - si stima che non siano mai stati più di trecentomila, contro sette-otto milioni di italiani - vivevano in una sorta di apartheid, soggetti alle proprie leggi consuetudinarie (della prima e più celebre raccolta, l’Editto di Rotari, è esposto il manoscritto redatto in latino nel 643 nel monastero di Bobbio), mentre per le relazioni tra italiani veniva applicato il codice teodosiano. Ma è nel quadro geopolitico che i Longobardi hanno lasciato il segno più duraturo. Con i loro ducati sparsi nella Penisola, formalmente soggetti all’autorità centrale ma di fatto largamente autonomi, anticiparono quelle specificità locali che hanno caratterizzato i secoli successivi. Una frammentazione politica e culturale problematicamente ricucita soltanto con il Risorgimento, ma che periodicamente riaffiora.

domenica 15 ottobre 2017

Gli ideali di Michelangelo



L’artista andò a Roma per la sua fama, ma anche per la vorticosa politica di quei decenni in cui il volto di Firenze e della città eterna cambiò sotto i suoi occhi

Massimo Firpo, "Il Sole 24 ore - Domenica", 15 ottobre 2017

Fiorentino tutto d’un pezzo, come risulta anche dalla lingua in cui scriveva, grande ammiratore di Dante Alighieri, allevato alle arti sotto l’egida di Lorenzo il Magnifico, Michelangelo Buonarroti trascorse larga parte della sua vita a Roma, dove lasciò i suoi massimi capolavori: la Pietà scolpita per il cardinale francese Jean de Bilhères alla fine del Quattrocento, firmata «MICHELANGELVS BONAROTVS FLORENTINVS»; i grandiosi affreschi della volta nella cappella Sistina commissionatigli da Giulio II tra il 1508 e il 1512; il Mosè e i Prigioni per la tomba di quest’ultimo, i cui lavori lo tormentarono per anni; e poi sotto Paolo III il Giudizio universale dipinto ancora nella Sistina tra il 1536 e il ’41, la piazza del Campidoglio, palazzo Farnese, gli affreschi della cappella Paolina, la Pietà Bandini e la Pietà Rondanini, la basilica di San Pietro con il disegno della sua immensa cupola; fino ai progetti per la chiesa di San Giovanni dei fiorentini, per Porta Pia, per la risistemazione di Santa Maria degli angeli sotto Pio IV, prima di morire novantenne nel 1564.
Non v’è dubbio che a condurlo a Roma fu la sua precocissima fama artistica, ma fu anche la vorticosa politica di quei decenni, in cui Firenze e Roma furono al centro della storia europea, tra le «guerre horrende» d’Italia inaugurate dalla calata di Carlo VIII e l’esplosione della Riforma protestante, tra gli splendori del Rinascimento e le origini della Controriforma. Le convulse vicende di quei decenni mutarono profondamente il volto delle due città sotto gli occhi di Michelangelo. Firenze passò dal crollo del regime mediceo all’effimera repubblica savonaroliana, dal gonfalonierato a vita di Pier Soderini alla restaurazione medicea del 1512, quando a governare la città furono Leone X e Clemente VII, al secolo Giovanni e Giulio de’ Medici. E poi ancora la nuova stagione repubblicana seguita al sacco di Roma tra il ’27 e il ’30, il definitivo ritorno dei Medici con Alessandro, investito da Carlo V del titolo ducale, il suo assassinio nel 1537 e la precaria successione di Cosimo, capace tuttavia di estinguere in breve tempo le residue resistenze antimedicee, di costruire un potere assoluto fondato su un’efficiente macchina amministrativa, di conquistare Siena e di ottenere infine da papa Pio V la corona granducale di Toscana. Non meno convulse furono le vicende di Roma, dove la secolarizzazione del potere papale, la corruzione di una curia simoniaca, le sconcezze di papa Alessandro VI, la bellicosa politica di Giulio II, le dilapidazioni festaiole di Leone X furono bruscamente interrotte dalla calata dei lanzi nella primavera del ’27, con un seguito inenarrabile di orrori, violenze, stupri, saccheggi, in un provocatorio inneggiare a Lutero il cui nome fu inciso dalla punta di una spada sugli affreschi di Raffaello nella stanza della Segnatura. Solo vent’anni dopo, tra continue incertezze e aspri scontri interni si sarebbe infine imboccata la strada del concilio di Trento, apertosi nel 1547 e conclusosi nel ’63, l’anno prima della morte di Michelangelo, che in tutti questi eventi fu coinvolto in prima persona.
Di qui l’importanza del tema affrontato in questo denso saggio di Giorgio Spini, che a oltre cinquant’anni dalla sua prima pubblicazione resta ancora fondamentale per capire gli orientamenti e le passioni politiche che animavano Michelangelo. La storia dei Buonarroti fra Tre e Cinquecento delineata in queste pagine aiuta a comprendere il senso di appartenenza al suo casato e alla sua città che animò quel sublime «scalpellino», che amava definirsi «cittadino fiorentino, nobile e figliolo d’omo dabbene» e che tale si sentiva intus et in cute. Ad accentuare l’identità e orgoglio che egli ne traeva contribuiva la stessa decadenza, talora ai limiti della povertà, di una famiglia non più in grado come in passato di accedere alle risorse e al prestigio garantito dall’esercizio delle cariche pubbliche, e quindi dalla capacità di muoversi con sagacia tra regimi sempre instabili e frequenti rivolgimenti.
Quelle forti passioni politiche, del resto, hanno lasciato tracce profonde sulla produzione artistica di Michelangelo. Basti pensare al David posto nel 1504 (in età soderiniana) a guardia dell’antico palazzo comunale, così diverso dalle precedenti raffigurazioni fiorentine di Donatello e Verrocchio, con il giovinetto trionfante sul capo di Golia ai suoi piedi: un gigante che non ha ancora scagliato la sua pietra, ma si accinge a farlo contro chiunque si azzardi a violare la libertà repubblicana. O al tirannicida Bruto commissionato a Michelangelo da Donato Giannotti e destinato al cardinale antimediceo Niccolò Ridolfi. Ancor più significativo è il fatto che, dopo aver lavorato per i papi medicei alle tombe della basilica di San Lorenzo, alla notizia della nuova restaurazione repubblicana dopo il sacco di Roma Michelangelo accorresse nella sua Firenze per dedicarsi anima e corpo alla progettazione delle difese militari. Fu solo la sua ineguagliabile fama artistica a indurre Clemente VII a perdonarlo, per affidargli i lavori della Biblioteca Mediceo-Laurenziana. Ma dopo il ’34, quando ormai Alessandro de’ Medici era stato proclamato duca di Firenze, egli non mise più piede nella sua amatissima patria per lavorare invece per papa Farnese, nemico giurato di Cosimo de’ Medici e pronto ad accogliere a Roma ogni sorta di fuoriusciti fiorentini, ripagato di ugual moneta dal giovane principe mediceo, che non perdeva occasione di sfogare la sua collera contro «quel traditore del papa».
Inutilmente Cosimo sollecitò Michelangelo a lavorare per lui, desideroso di appropriarsi dei suoi talenti e della sua fama, nel quadro di una politica di conciliazione e riassorbimento della tradizione repubblicana. E quando morì ne fece trafugare il corpo a Roma e ne celebrò le solenni esequie in San Lorenzo, per affidare poi il compito di costruirne il monumento funebre in Santa Croce a Giorgio Vasari. Quest’ultimo nelle sue Vite ne fece il culmine dell’arte tosco-romana, presentandolo come il sommo artista che proprio con il David di piazza della Signoria era riuscito a raggiungere e superare la bravura degli antichi. Com’è noto, il pittore aretino si professò sempre ammiratore e amico di Michelangelo, ma quando arte e amicizia confliggevano con la sua vocazione cortigiana, il servile «Giorgetto Vassellario» (così lo definì Benvenuto Cellini) non aveva dubbi da che parte stare. Per questo quando gliene venne l’occasione, in un monocromo all’interno di palazzo Vecchio ormai diventato corte medicea, egli raffigurò quella statua in una scena con l’ingresso di Leone X a Firenze nel 1515. Ma la raffigurò con un basamento tanto alto che la testa (quella di David simbolo della libertà, non quella di Golia!) risultasse tagliata, e per di più con un cane che deposita placidamente i suoi escrementi davanti ad essa. Un insulto triviale, tale tuttavia da dimostrare come anche dopo la morte Michelangelo fosse coinvolto nei conflitti e nelle passioni politiche dell’età sua, sia pure degradato a strumento dell’adulazione vasariana.

Giorgio Spini, Michelangelo politico, prefazione di Tomaso Montanari, presentazione di Valdo Spini, Edizioni Unicopli, Milano, pagg. 148


domenica 24 settembre 2017

Storia letteraria dell’odio


Il sentimento più diffuso sui social raccontato dai Grandi di ogni tempo. A partire da Dante


Stefano Massini, "La Repubblica", 23 settembre 2017

Che il cannibalismo sia un hobby dei giorni nostri, è un dato acquisito. I social sono diventati ormai una tavola calda per antropofagi, dove le carni altrui vengono allegramente squartate e servite in spezzatino come nel “Tito Andronico” di William Shakespeare. Se possibile, siamo un passo avanti rispetto all’insulto e alla denigrazione: la miasmatica epidemia d’odio che ci avvolge sembra rispondere a un bisogno fisico, a un istinto come quello della fame, quasi i nostri metabolismi necessitassero ormai di una regolare dose di selvaggina umana. In tempi di diete vegane, riaffiora insomma l’homo carnivorus e dunque cacciatore, sprovvisto di fucile ma armatissimo di account. E nelle foreste del web, il bottino può essere assai lauto, soprattutto se ogni pretesto è buono (dai vaccini all’immigrazione) per travestire odio e invidia dietro uno scudo di apparente legittimità dialettica.
Nella sua scientifica analisi dell’odio, Erich Fromm — in tempi non sospetti — sosteneva d’altra parte che questo passaggio fosse il più furbo per chi voglia moralmente assolversi, nobilitando i propri travasi di bile in diritti d’opinione. Per cui benvenuti nel grande mattatoio: c’è posto per tutti, e l’odio è la vera password del nostro vivere connessi. Ma nel grande archivio della letteratura, ci sono segnali che possano aiutarci a non perdere la rotta in questa bufera di coltelli? In effetti — saltando indietro di un bel po’ di secoli — un primo efficacissimo ritratto delle nostre risse tutte sbraiti e fiele, lo troviamo nientemeno che nell’Inferno di Dante, canto VIII, dove chi in vita fu adepto dell’odio sta in eterno a sguazzo in una palude fetida, dilaniandosi in una bolgia chiassosa. Non bastasse, traghettati da Flegiàs (becero a sua volta), Dante e Virgilio inorridiscono alla vista di un bullo di quartiere come Filippo Argenti, ora straziato nella broda e infine costretto a mordersi da solo.
A tentare una risposta ci provò senz’altro Shakespeare, cominciando ad aprire qualche porta fra la stanza dell’odio e quella della frustrazione: Iago visceralmente detesta Otello, trama contro lui tutto il male del mondo, ma è chiaro che tutto nasce solo da un suo complesso d’inferiorità, cosicché la chiave di tutto sta nel fatto — per dirla con Cesare Pavese — che noi odiamo gli altri perché odiamo noi stessi. Tutto insomma — piaccia o meno — ci nasce sempre dentro, anche se poi lo sbraitiamo fuori contro altri (magari in forma anonima sulla app Sarahah): per quanto ci sembri superato, diamoci atto che la fucina dell’odio 4.0 è sempre quel torbido sottosuolo dove Dostoevskij faceva agglomerare la rabbia dei suoi inetti. Se dunque il signor Iago avesse guardato un po’ di più fra i propri rovelli, si sarebbe risparmiato tempo e fatica, persi invece a sfuriare contro il Moro. Già, perché in effetti c’è il dettaglio non secondario che Otello era di carnagione scura, fattore che ti candida da sempre a intercettare gli sbraiti degli irrisolti (ed è impossibile non pensare al monologo impressionante dell’immaturo Monty Brogan che ne La venticinquesima ora, il romanzo di David Benioff diventato un film di Spike Lee, sciorina davanti allo specchio tutto il catalogo dei suoi odi newyorkesi, dai coreani puzzolenti di fritto agli italiani mafiosi, dagli ebrei con la forfora ai negri di Harlem).
Nelle pieghe della differenza (di religione, di cultura) si annida da sempre il virus dell’invettiva facile, peraltro rafforzata dal suo essere un collante sociale, cioè un invito a gridare insieme. E se v’è da gridare, niente è pretesto migliore che un odio comune o una comune lotta per la sopravvivenza (la definizione è di Lev Tolstoj). Il fatto è che di questi cori beceri non sono però depositarie solo le taverne, bensì ogni punto di ritrovo (anche virtuale) di una borghesia spaesata: già Flaubert nel 1867 si diceva allibito di come i benpensanti vomitassero fiele contro certi bohémien. Pertanto, laddove i conflitti sono stati più forti, ecco nascere un odio cieco, identitario, come quello di miss Quested contro Aziz nel Passaggio in India di Forster. Non stupirà allora che dalla letteratura afroamericana provengano fior di libri su cosa sia l’esperienza non solo di un odio subito, ma anche — per paradosso — di un odio talmente radicato da tradursi in unico metro possibile per misurare le distanze sociali: il giovane protagonista di Paura (spietato romanzo scritto nel 1940 da Richard Wright) è di fatto incapace di vivere senza odiare, e si domanda lui stesso da dove gli nasca questa irresistibile tendenza al male. È il cancro di un odio che genera odio, unendo vittima e carnefice in un tutt’uno, come ci racconta con inaudita crudeltà il grande Herman Melville in Benito Cereno — un libro certamente da riscoprire — in cui è ricostruita la vera vicenda del veliero carico di schiavi il cui equipaggio (bianco) fu interamente massacrato da una rivolta degli africani.
Fu un’ordalia, fu un tripudio di sangue, fu una mattanza disumanamente compiuta da esseri umani in risposta alla disumanità di altri esseri umani, in quell’assurda pretesa di vendetta che nella spirale dell’odio rende progressivamente spettri (si pensi a I miserabili di Hugo o al Conte di Montecristo di Dumas). È un utile promemoria, per un’epoca come la nostra in cui tutto sembra giocarsi su infinite reazioni ad attentati altrui: la parabola del male che alimenta ulteriore male è più che presente in più di un capolavoro, a partire da Moby Dick in cui la ferocia distruttiva del mostro nutre la sete di morte prima del solo Achab, e quindi dell’intero Pequod. Ed eccoci a un punto decisivo: troppo spesso non ci rendiamo affatto conto di cosa stiamo realmente odiando. L’odio di cui ci riempiamo le bocche è simile a quello descritto da Heinrich Mann nel 1918 nel suo indimenticabile Il suddito: come in quella goffa Germania pre-hitleriana, anche oggi l’odio urlato garantisce una rendita di posizione, da spendersi al mercato delle vacche della comunicazione.
Questo per i toni. Ma i contenuti? Irrisori. Quel che vale è che in assenza di un’identità, niente illude più che il sentirsi costantemente schierati contro. Contro chi? Boh. Contro cosa? Boh. Conrad descrisse portentosamente questo paradigma di un odio gratuito: ne I duellanti, i due protagonisti trascinano il loro scontro per anni e anni senza che vi sia in realtà un motivo del contendere. Il loro è un odiarsi per odiarsi, un volersi sentire impegnati in una gara di sopravvivenza che dia un senso al loro esistere, indipendentemente dalla posta in palio. Sguainano le spade, si abbandonano all’odio, reclamano per l’altro il puro male. Perché? Boh, intanto duelliamo. Temo che purtroppo siamo noi, davvero.
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martedì 18 luglio 2017

Medioevalia. Donne ribelli in cerca di libertà


Eliana Di Caro, "Il Sole 24 Ore - Domenica", 16 luglio 2017

C’erano quelle che fuggivano nei monasteri, per sottrarsi all’oppressione e alla violenza di mariti che non sarebbero mai cambiati; e c’erano coloro che fuggivano dai monasteri, desiderose di conoscere una vita diversa da quella che avevano deciso per loro i genitori, recludendole tra quattro mura in un’atmosfera di tetra solitudine. C’erano le donne il cui tentativo andava a buon fine e quelle che venivano prese e ricondotte a un’esistenza infelice.
Leggendo l’accurato Donne in fuga (il Mulino) di Maria Serena Mazzi, ordinaria di Storia medievale, si partecipa alle traversie di queste coraggiose ribelli, di cui ci è giunta notizia attraverso atti giudiziari, documenti e resoconti redatti naturalmente da uomini, in un’epoca in cui all’altra metà del cielo non è concesso di studiare. All’interno di una famiglia borghese o aristocratica, quando nasceva una femmina si cominciava a pensare ai destini coniugali della neonata: già a dieci anni le nozze erano combinate e a 16 anni l’esperienza della maternità era stata vissuta più volte (con il vivo augurio di figli maschi). Sulle donne povere le testimonianze sono minori e indirette, ma tali da poter dire che in una famiglia di contadini, salariati e artigiani si andava a lavorare da poco più che bambine e l’ipotesi di trovare un marito decente - con una dote misera o inesistente - si prefigurava difficile. Questo significava spesso finire nell’orbita di un uomo di mezza età che aveva bisogno di una serva, avendo già dei figli da crescere poiché per qualche ragione si ritrovava da solo. Insomma un destino non allettante.
È in questo panorama che si distinguono diverse figure, descritte nel libro. Due, per chi scrive, esemplari. La prima, Eleonora d’Aquitania. Cresciuta alla corte del nonno Guglielmo IX, alla morte dei suoi cari nel 1137 si ritrova ricca e potente, nella contea di Poitou e Guascogna. Sposa Luigi VII di Francia: lei ha 13 anni, lui 16. Ma in 15 anni di matrimonio, arrivano solo due femmine e la successione al trono non è garantita. La “colpa”, inutile dirlo, ricade su Eleonora. Nel 1152 viene sciolto il vincolo matrimoniale e lei, a quel punto preda non da poco, sventa ben due rapimenti e si lega a Enrico, duca di Normandia e futuro re di Inghilterra, cui dà - udite udite- cinque maschi e tre femmine. Di fronte al tradimento reiterato del consorte, Eleonora non abbassa la testa e se ne va, nonostante la Chiesa tuoni contro di lei per l’abbandono del tetto familiare. Una figura orgogliosa e indipendente come poche.
Il secondo esempio è quello di una donna di cui non ci è giunto neanche il nome, si sa solo che vive con il marito nel vicariato di Anghiari (Arezzo), nel 1416, ma la sua storia è indicativa del destino cui andavano incontro coloro che nascevano in contesti umili. Dai documenti emerge che l’uomo ha una giovane amante con cui intende trascorrere il resto dei suoi anni, e per farlo senza scatenare l’ira della comunità pensa bene di indurre la moglie a lasciarlo rendendole la vita un inferno: botte, umiliazioni, insulti. Ma i pettegolezzi (o la delazione) di un vicino gli intralciano i piani: il vicario condanna il fedifrago e anche - incredibilmente - la moglie per complicità nell’accaduto. Ma lei, nel frattempo, sfinita dalle angherie del marito, era già fuggita!
Il libro contiene numerosi esempi, dall’immancabile Giovanna D’Arco e le diverse mistiche (Caterina da Siena, Ildegarda di Bingen, Brigida di Svezia) a storie comuni e rivelatrici della prostrazione e della capacità di superarla che queste donne avevano, dalle schiave alle prostitute. Senza dimenticare naturalmente le eretiche e le streghe, «“femmine incantatrici e maliose”, che rendono impotenti gli uomini per vendetta o che li “ammaliano” per sviarli e tenerli avvinti, annullando la loro volontà, facendone strumenti nelle loro mani». Se non fosse che in tante sono andate al rogo, o in prigione, o sono state fustigate, ci sarebbe quasi da sorriderne.